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LIBRI LETTI

“STARE”

Quando la fragilità dell’altro diventa parola di Dio

C’è un momento, accanto a un anziano o a un malato, in cui si smette di “fare”.
Hai portato l’acqua, sistemato i cuscini, detto parole di conforto… e poi non resta più nulla da aggiungere. Solo la presenza. Solo lo “stare”.

È qui che inizia il libro Stare. In compagnia del malato e dell’anziano, doni e cura di Massimo Camisasca e Vincent Nagle (Edizioni Ares, 2025).
Non un manuale di assistenza, né una riflessione teologica nel senso accademico, ma una meditazione semplice e disarmante su cosa significhi essercirestare accanto, e lasciarsi toccare dal limite dell’altro.

Camisasca e Nagle partono da un’evidenza spesso ignorata: davanti alla malattia o alla vecchiaia, non possiamo “risolvere” nulla.
Possiamo solo restare. E in quel restare accade qualcosa: l’altro non è più solo oggetto della nostra cura, ma diventa rivelazione del nostro stesso limite.

Il libro invita a guardare la fragilità non come un difetto da correggere, ma come un linguaggio — forse il più universale di tutti.
Nel volto segnato di chi soffre si manifesta qualcosa di misterioso:

Dio che ci parla attraverso la vulnerabilità dell’altro.

Quando l’altro ci restituisce noi stessi

Ciò che più mi ha colpito è la reciprocità che il libro fa emergere.
Chi si prende cura non è mai “solo colui che dona”: nel tempo dello stare, scopre che riceve più di quanto offre.
Il limite dell’altro diventa specchio del proprio, e in quello specchio ci si scopre fragili, dipendenti, bisognosi — ma anche amati, voluti, custoditi.

Ricordo quando andavo a trovare il mio amico Ugo, malato di SLA, a casa sua.
All’inizio cercavo di dialogare con lui, di riempire il tempo con parole, ma negli ultimi mesi non poteva più nemmeno comunicare con gli occhi sul monitor davanti a sé: era stanco, e anche quel piccolo gesto gli costava fatica.
Mi accorgevo allora che andavo da lui più per me che per lui.
Stare accanto a Ugo, in quel silenzio pieno, mi rivelava qualcosa di profondo: che la sua fragilità parlava anche della mia, che il suo limite mi mostrava il mio.
Era come se Dio stesso, attraverso Ugo, mi dicesse chi sono davvero — un essere finito, eppure amato in ogni fibra della mia debolezza.

Lo “stare” non è dunque un’attesa passiva, ma un atto spirituale: una forma di preghiera incarnata.
In quel silenzio condiviso accade qualcosa di sacro — non spettacolare, ma reale.
È un Dio che parla piano, attraverso la pelle, gli sguardi, i respiri affannati, i ritmi lenti.

Il dono che nasce dal limite

In un tempo ossessionato dall’efficienza e dal controllo, questo libro è quasi scandaloso: ci chiede di accettare che non tutto può essere guarito.
Ma ciò che non si può guarire, può essere amato.
E l’amore, in questa prospettiva, è la forma più alta di conoscenza: una luce che nasce dal riconoscimento del limite, non dalla sua negazione.

“Il malato e l’anziano — scrivono gli autori — non ci chiedono solo gesti di carità, ma la compagnia che scaturisce da una fede viva.”
E questa compagnia, se è autentica, ci riporta a Dio: non un Dio distante, ma un Dio che si lascia trovare nella carne fragile degli uomini.

Perché leggerlo oggi

Stare è un libro piccolo ma densissimo, da leggere lentamente, magari una pagina al giorno.
Non dà risposte facili, ma apre una via: la via della presenza.
È una lettura che parla ai credenti e ai non credenti, a chi accompagna e a chi è accompagnato, perché tutti — prima o poi — ci troviamo nel luogo della dipendenza, del limite, della resa.

E forse è proprio lì, nel punto in cui non sappiamo più cosa dire o fare, che Dio finalmente riesce a parlarci.

Leggere Stare è come sedersi accanto a qualcuno in silenzio.
Ti insegna che la cura non è un’azione ma una relazione, e che a volte la presenza è il gesto più alto dell’amore.
Chi soffre ci ricorda che la vita non è nostra, che tutto è dono, e che l’ultima parola — anche nel dolore — è sempre una parola di bene.

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