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Una settimana per tutta la famiglia

Quando siamo tornati al Meeting con i nostri figli, dopo dieci anni di pausa, ci siamo chiesti se ce l’avremmo fatta.
Tutto quel movimento, gli incontri, la confusione…
E invece è stata una delle decisioni più belle che abbiamo preso.

Il Meeting non è pensato solo per gli adulti, o per chi “cerca risposte alte”. È uno spazio che abbraccia tutti, e questo lo si capisce subito appena si mette piede nel Villaggio Ragazzi.

Ogni anno, questo spazio si trasforma in un piccolo mondo dove i bambini possono scoprire, giocare, costruire, ridere, ascoltare storie — e senza nemmeno accorgersene, toccare qualcosa di grande.
Ricordo una mostra su Gaudí fatta per i più piccoli: tra colori, forme e costruzioni, i miei figli hanno intuito che la bellezza può nascere dalla fede e dalla creatività.
Oppure quella sui Cavalieri della Tavola Rotonda: tra giochi e racconti, si parlava di coraggio, amicizia, giustizia. Temi eterni, presentati in modo coinvolgente.

Non è intrattenimento fine a sé stesso. È un’esperienza che educa senza pesare, che lascia tracce.
Ogni giorno i nostri figli tornavano con occhi pieni di novità. E noi con loro.

Ma il bello del Meeting in famiglia non è solo nel programma. È nella vita che si respira insieme: si mangia seduti su una panchina, si corre da un padiglione all’altro, si fa la fila per una mostra, si incontra gente che parla con i tuoi figli come fossero amici.
È una scuola di apertura, di stupore, di ascolto.
E ogni volta che torniamo a casa, ci scopriamo più uniti. Perché il Meeting è anche questo: una settimana in cui, senza quasi volerlo, ci si ritrova come famiglia.

Per me, è diventato un appuntamento irrinunciabile, anche per loro. Anche se adesso sono cresciuti. Perché si rimane sempre genitori, come si rimane sempre figli.
E il bello è che ogni anno scopriamo qualcosa di nuovo — dentro e fuori di noi.

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Cose belle che accadono solo al Meeting

Ogni anno, al Meeting, mi accorgo che accadono cose che altrove sembrano impossibili.
Non parlo solo dei convegni o delle mostre, ma di quella atmosfera inconfondibile in cui ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo sembra portare dentro qualcosa di più grande.

È un luogo dove, per qualche giorno, si può vivere con uno sguardo diverso.
Dove le differenze non dividono, ma incuriosiscono. Dove si può discutere con rispetto, ascoltare con attenzione, incontrare davvero l’altro — anche se la pensa diversamente.

Come quella volta, nel 2018, con Veronica Cantero Burroni.
Aveva solo sedici anni. Arrivava dall’Argentina, con una sedia a rotelle, cinque romanzi pubblicati e una forza d’animo fuori dal comune.
Parlava del suo libro, Il ladro di ombre, ma in realtà raccontava molto di più: la sua vita, la sua fede, il suo modo di affrontare la disabilità come un dono — non una croce, ma una condizione che le permette di guardare il mondo con più profondità.

Diceva: «Essere felice non è avere un cielo senza tempesta, ma trovare speranza e forza nelle battaglie».
Parlava con semplicità e libertà. Ma in quel pomeriggio, tra ragazzi e adulti, è successo qualcosa. Un silenzio pieno, una commozione vera. Era come se, attraverso la sua voce, tutti potessimo intuire che la felicità non è assenza di dolore, ma presenza di senso.

Anche questo è il Meeting.

Oppure ricordo Italia Giacca, incontrata al Meeting nel 2015 in occasione della mostra sull’esodo dei Giuliano-Dalmati.
Una donna forte, dallo sguardo fermo e pieno di luce. Parlava con sobrietà, ma ogni parola era intrisa di verità vissuta.
Non portava rancore, ma memoria. Non cercava compassione, ma comprensione.

Raccontava l’esilio vissuto da bambina, il dolore di chi ha dovuto lasciare la propria terra per rimanere fedele alla propria identità.
Non c’era vittimismo, né enfasi. Solo il peso dignitoso di una storia che non si può dimenticare, e che continua a interpellare anche oggi.

Diceva: “Abbiamo lasciato tutto, ma non ci siamo mai lasciati andare.”
In lei c’era la forza silenziosa di chi ha conosciuto il distacco, ma ha saputo trasformarlo in apertura.
Non ho mai dimenticato quella testimonianza.
Era come una radice che affonda nella terra perduta e, allo stesso tempo, un ramo che si protende verso chiunque voglia ascoltare.

Anche questo è il Meeting: un luogo dove la storia si fa carne, volto, racconto.
E dove incontri persone come Italia, che con la sola presenza ti insegnano cosa significa restare umani, anche nel dolore.

Uno degli incontri che non dimenticherò mai è stato quello con Fabrice Hadjadj al Meeting del 2011, in un’aula gremita di curiosi. Fin dal primo istante colpiva per il suo modo di parlare: serio ma mai pesante, ironico ma profondamente rigoroso. Era evidente che dietro ogni battuta c’era una ricerca autentica della verità.

Al Meeting, si è fatto ascoltare con un approccio sorprendente: raccontava la bellezza della tradizione cristiana, la profondità del desiderio umano, il limite del corpo e la fragilità della nostra esistenza… ma con leggerezza e libertà. Non un discorso astratto, ma uno che ti sfiora: “Il desiderio… la carne… il limite” non erano temi lontani, ma parole che ti restavano dentro, perché dicevano qualcosa di te .

Fabrice Hadjadj è per me la testimonianza vivente di un pensiero appassionato e non conformista, capace di combinare profondità teologica, bellezza filosofica e ironia esistenziale. È uno di quei “mattoni nuovi” che ti restano dentro per costruire in un modo diverso, più vero.

E tutto questo — incontri, spettacoli, testimonianze — avviene in mezzo a volontari sorridenti, famiglie con bambini, giovani in cerca, anziani attenti.
Un popolo in cammino. Un’umanità diversa, possibile.

Sono cose che accadono solo lì.
E ogni volta che torno a casa dal Meeting, mi porto via qualcosa che non so sempre spiegare, ma che sento vero: uno sguardo più aperto, un cuore più vivo, un desiderio rinnovato.

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Costruire nel deserto: il titolo del Meeting 2025

“Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi.”
È il titolo dell’edizione 2025 del Meeting di Rimini. Un verso tratto dai Cori da “La Rocca” di T.S. Eliot. E, come spesso accade con i titoli del Meeting, non è uno slogan: è una sfida.

Viviamo tempi in cui molti “luoghi deserti” ci circondano. Non si tratta solo di paesaggi fisici, ma soprattutto di spazi interiori e sociali: la solitudine, il disincanto, il senso di smarrimento che spesso accompagna il nostro vivere quotidiano; le relazioni che si fanno fragili, il lavoro che perde senso, la realtà che appare arida e opaca.
Sono deserti silenziosi, ma profondi. Eppure, proprio lì può nascere qualcosa di nuovo.

Il titolo di quest’anno ci ricorda che il deserto non è la fine, ma un inizio possibile.
È lì che siamo chiamati a costruire — con mattoni nuovi. Non con vecchie soluzioni, non con strategie di potere o tecnocrazie senz’anima, ma con gratitudine, libertà e desiderio di bene.

Questo spirito si ritrova con forza anche nelle mostre del Meeting 2025, che toccano temi attualissimi:
– la testimonianza coraggiosa di uomini come Vasilij Grossman,
– la freschezza della fede di Carlo Acutis,
– la fedeltà silenziosa dei martiri di Tibhirine,
– figure come San Francesco o il banchiere visionario Amadeo Giannini,
– la sfida dell’innovazione e del lavoro in contesti di crisi,
– la riscoperta della bellezza nell’arte romanica, nella fotografia contemporanea e persino nei materiali scientifici del futuro.

Tra questi percorsi, mi hanno colpito in particolare due figure, lontane tra loro per tempo e contesto, ma vicine per profondità e testimonianza.

Vasilij Grossman, scrittore e giornalista sovietico, ha vissuto in prima linea i grandi drammi del Novecento: la Seconda guerra mondiale, la Shoah, il totalitarismo.
Ha raccontato tutto questo con uno sguardo umano, libero, spesso scomodo per il regime. Il suo romanzo Vita e destino fu sequestrato dal KGB, ma oggi è considerato un capolavoro.
Grossman ha attraversato l’orrore senza cedere al cinismo, cercando in ogni frammento di storia una scintilla di verità, di bene, di giustizia.
È uno che ha costruito — con parole, con memoria, con coscienza — in mezzo al deserto del terrore e della censura.

Carlo Acutis, invece, è un ragazzo del nostro tempo.
Classe 1991, vissuto solo 15 anni, è stato capace di vivere la fede con semplicità e passione in piena era digitale.
Amava la tecnologia, i videogiochi, internet. Ma più di tutto amava l’Eucaristia, che chiamava “la mia autostrada per il cielo”.
Ha creato un sito per far conoscere i miracoli eucaristici nel mondo, perché nessuno dimenticasse che Gesù è presente.
Un ragazzo come tanti, ma con una luce dentro. Un mattone nuovo, fragile e potente, nella costruzione di un mondo più vero.

E poi ci sono le esperienze che commuovono: la disabilità vissuta in famiglia con dignità e amore, la memoria del dramma ucraino, la forza della riconciliazione in tempi di guerra.

Tutte queste mostre raccontano storie vere, che mostrano come si possa davvero ricostruire anche dove tutto sembra perduto. Mattoni nuovi, appunto: relazioni autentiche, progetti generosi, uno sguardo pieno di speranza.

Il Meeting 2025 non sarà solo un insieme di incontri. Sarà un cammino tra testimoni, un laboratorio di fiducia nel futuro, dove chiunque può riscoprire la propria vocazione a costruire, a prendersi cura, a non cedere al deserto.

Io ci sarò. E tu?

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Perché ogni anno torno al Meeting di Rimini

La prima volta che ho messo piede al Meeting di Rimini dev’essere stato nel 1985 o 1986. Avevo circa vent’anni, ed ero in cerca. In cerca di qualcosa che ancora non sapevo definire, ma che sentivo mancarmi: uno sguardo più ampio sul mondo, una compagnia sincera nel vivere le domande di sempre, un luogo dove la realtà non fosse un peso ma una promessa.

Ricordo l’atmosfera fin da subito: intensa, piena, diversa. Le giornate scorrevano tra incontri inaspettati, parole che ti rimanevano dentro, mostre che sembravano parlare direttamente alla tua vita. E soprattutto persone. Persone di ogni età, provenienza, lingua, cultura. Era come trovarsi, all’improvviso, nel cuore pulsante dell’umanità. Come se per qualche giorno, in quel pezzo di Fiera, il mondo intero si fosse dato appuntamento per cercare insieme ciò che conta davvero.

Da allora, ho sempre portato il Meeting dentro di me, anche nei periodi in cui non riuscivo ad andarci. Quando sono nati i miei figli, io e mia moglie Paola abbiamo fatto una pausa di dieci anni. Non ce la sentivamo di affrontare una settimana così “intensa” con bambini così piccoli. Ma la nostalgia era forte. Ogni estate, quando arrivavano le giornate di agosto, sentivo che mi mancava qualcosa.

Poi, appena possibile, ci siamo tornati. Tutti insieme. Ed è stato ancora più bello. Perché con la mia famiglia accanto, quelle giornate sono diventate occasione di crescita condivisa, di sguardi che si incrociano davanti a una mostra, di domande che si riaccendono ascoltando una testimonianza. E da allora, non ho più smesso.

Ogni anno, quando organizzo le ferie, c’è una settimana che non si tocca: quella del Meeting. Lo considero un appuntamento con la mia umanità. Un tempo privilegiato in cui rimettere a fuoco le cose essenziali, lasciarmi provocare, respirare un’aria diversa. Non importa quanto sia stanco, confuso o distratto: torno sempre da lì con il cuore più leggero e il passo più deciso.

Ogni volta che varco l’ingresso della Fiera, provo lo stesso stupore di quella prima volta. E ogni volta torno a casa con qualcosa di nuovo. Un volto, un’idea, un dolore condiviso, una speranza rilanciata. È come se ogni anno il Meeting mi aiutasse a cominciare di nuovo, a vivere con più consapevolezza i dodici mesi successivi.

Per questo comincio oggi una piccola serie di post. Non per spiegare cos’è “il Meeting” in generale, ma per raccontare cosa significa per me.

Il titolo del Meeting 2025 è:
“Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi”

Un verso di T.S. Eliot che ci invita a non arrenderci di fronte al vuoto e alla fatica del presente. È un invito a scoprire che proprio nei momenti più aridi della storia può nascere qualcosa di nuovo: relazioni vere, cura del bene comune, lavoro creativo, iniziative che danno speranza.

Costruire non con illusioni di potere o strategie fredde, ma con gratitudine e libertà, valorizzando tutto ciò che abbiamo ricevuto. È così che si colmano i deserti: non da soli, ma insieme, riscoprendo il desiderio di condividere il cammino verso ciò che è vero, buono e giusto.

Il Meeting offre ogni anno questa possibilità. Ed io non riesco a farne a meno.

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LIBRI LETTI

Dio ci conosce col nostro vero nome

Ho letto questo libro di Mariagrazia Magon in un paio d’ore, ma mi rimarrà dentro per il resto della mia vita. È un racconto bellissimo, toccante, e – soprattutto – necessario. Per chi, come me, non sa nulla o quasi di cosa significhi vivere con un figlio autistico, questo libro apre uno squarcio autentico, profondo e pieno di umanità.

L’autrice ci porta dentro la sua esperienza personale, quotidiana, a volte umoristica, mai disperata, di madre di Francesco, un bambino con autismo. Non si tratta di una guida tecnica né di un saggio clinico: è il racconto di una vita vera, fatta di piccoli gesti, battaglie silenziose, intuizioni improvvise e tanto amore.

E a sostenere tutto questo, in filigrana eppure potentissima, c’è la fede. Una fede profonda, autentica, che attraversa ogni pagina e che ha sorretto questa madre nei momenti più duri. Mariagrazia non si è mai lasciata andare, ha riposto in Dio la sua massima fiducia, e questa fiducia traspare in ogni scelta, in ogni parola, in ogni abbraccio raccontato.

Ma la fede – come lei stessa ricorda – ha bisogno di volti, di persone vicine, di mani che si stringono.

Come scrive nel capitolo 37:
“E soprattutto non mi sono mai mancati gli amici, quelli veri, quelli che guardano le mie ferite senza girare la testa. Quando vivi certe esperienze non ti accontenti più degli amici con i quali stai solo in superficie, coi quali non parli mai dei veri problemi e stai con loro per ‘anestetizzarti’, perché tanto ‘va tutto bene’, quando invece non è affatto vero che ‘va tutto bene’. Perché questa è la vita: a volte va bene, a volte non va bene. Ho avuto la straordinaria fortuna di trovare amici che hanno lo sguardo nella stessa direzione di dove guardo io.”

Ciò che colpisce è la capacità dell’autrice di comunicare non solo il dolore, ma anche la gioia, la scoperta continua, il valore della diversità e della relazione. È un invito a guardare le persone oltre le etichette, a riconoscere ogni individuo per quello che è, nel profondo. Perché – come dice il titolo – Dio ci conosce col nostro vero nome.

Un libro che consiglio a tutti: genitori, insegnanti, educatori… ma anche e soprattutto a chi vuole capire, anche solo un po’, cosa significhi essere davvero vicini a chi vive e ama una persona con autismo.

Il ricavato della vendita del libro sarà interamente devoluto a ANGSA Lombardia – Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici: un motivo in più per leggerlo, condividerlo e farlo conoscere.

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Ricorrenze...

Eduardo De Filippo: L’Anima di Napoli, la Voce dell’Umanità

La pagina del Corriere della Sera del 10 aprile 1934 con la recensione di “Natale in casa Cupiello”

Il 24 maggio 2025 ricorreranno 125 anni dalla nascita di Eduardo De Filippo, un gigante del teatro italiano, un artista che ha saputo come pochi far vibrare le corde dell’anima umana. La sua eredità, un tesoro di commedie indimenticabili e di una profonda comprensione dell’animo umano, continua a vivere nei cuori di chi lo scopre.   

È stato mio nonno Raffaele a farmi conoscere Eduardo. Ricordo ancora la sua ammirazione per quest’uomo capace di suscitare riso, commozione e riflessione, tutto in un unico istante. Un maestro, un punto di riferimento, un amico sincero attraverso le sue opere.   

Chi era Eduardo?

Nato a Napoli nel 1900, Eduardo De Filippo calcò le scene fin da giovanissimo, respirando l’aria del palcoscenico come fosse la sua stessa essenza. La sua vita fu un atto d’amore verso il teatro: autore prolifico, attore carismatico, regista visionario e fondatore di compagnie. Ma Eduardo era molto più di un semplice uomo di teatro. Era un poeta del quotidiano.   

Le sue opere sono finestre aperte sulla vita vera, quella intessuta di sogni e speranze, ma anche di difficoltà, delusioni e legami familiari. Ha creato commedie che sono ormai leggende, pietre miliari della drammaturgia italiana: Natale in casa CupielloFilumena MarturanoNapoli milionaria! e Questi fantasmi! In questi capolavori, Eduardo mescolava con maestria umorismo e malinconia, dando voce alla gente comune con una verità e un’autenticità che arrivano dritte al cuore.   

Un Uomo che Comprendeva l’Animo Umano

Eduardo non scriveva per mettersi in mostra, per esibire la sua bravura. Il suo teatro nasceva dal desiderio profondo di comunicare, di creare un ponte con il pubblico. Utilizzava il dialetto napoletano, è vero, ma le sue storie superano i confini linguistici e geografici, toccando l’universalità dell’esperienza umana. Amore, povertà, il bisogno di essere ascoltati, la ricerca della felicità: temi eterni che risuonano in ogni cuore, in ogni tempo.   

La sua celebre battuta, “Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”, è un esempio perfetto della sua capacità di unire il riso alla riflessione. Eduardo sapeva scovare la poesia nelle piccole cose, la verità nei silenzi, l’umanità nelle fragilità.   

Un Riconoscimento Mancato, Un’Eredità Immortale

Nel 1981, fu nominato senatore a vita, un riconoscimento prestigioso per il suo contributo alla cultura italiana. Tuttavia, per molti, e mi unisco a questo coro, avrebbe meritato il Premio Nobel per la Letteratura, il sigillo di un genio. Le sue opere hanno varcato i confini nazionali, tradotte, amate e rappresentate in tutto il mondo.   

Ma forse, la sua grandezza più autentica risiede nella sua capacità di essere sempre attuale, di parlare al presente anche senza l’investitura di un premio. La sua eredità è viva, pulsante, custodita nel cuore di chi lo legge, lo ascolta e lo vede in scena ancora oggi.   

Perché Eduardo è Importante per le Nuove Generazioni

Eduardo De Filippo è un maestro che ci aiuta a comprendere più profondamente chi siamo. I suoi personaggi non sono eroi senza macchia, ma esseri umani con le loro fragilità, le loro contraddizioni, le loro debolezze. Sono comici e tragici allo stesso tempo, ma soprattutto veri.   

In un’epoca dominata dalla velocità e dall’apparenza, Eduardo ci invita a rallentare, a guardare dentro noi stessi, ad ascoltare gli altri, a coltivare la profondità dell’animo. Avvicinarsi al suo teatro può sembrare strano all’inizio, un tuffo in un mondo lontano. Ma ben presto, nasce un’affezione sincera, un legame indissolubile. Perché si comprende che, al di là del tempo trascorso, quelle storie parlano anche di noi, delle nostre vite, delle nostre emozioni.   

Eduardo De Filippo non è semplicemente un capitolo della storia del teatro. È uno specchio nel quale possiamo ancora oggi rifletterci, per comprendere un po’ meglio la complessità e la bellezza dell’esistenza.   

Buon compleanno, Maestro. La tua voce continua a risuonare nei nostri cuori.

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Ricorrenze...

In ricordo di Giorgio Bassani: la memoria come resistenza silenziosa

Corriere della Sera

Il 13 aprile del 2000 ci lasciava Giorgio Bassani, uno dei più intensi e raffinati narratori del Novecento italiano. A venticinque anni dalla sua scomparsa, il suo sguardo delicato ma implacabile sulla Storia continua a parlarci, a insegnarci, a farci riflettere.

Bassani è l’autore de Il giardino dei Finzi-Contini, romanzo simbolo della memoria, della perdita e della distanza tra ciò che siamo e ciò che avremmo potuto essere. Ambientato nella Ferrara della sua giovinezza, attraversata dalle leggi razziali e dalle ombre del fascismo, questo libro ci racconta non solo la tragedia della persecuzione ebraica, ma anche il dramma universale dell’esclusione, dell’illusione e della fragilità delle relazioni umane.

Ma Bassani è molto più di un solo romanzo. Con il ciclo narrativo Il romanzo di Ferrara ha costruito un affresco vivido e doloroso dell’Italia tra gli anni ’30 e il dopoguerra, scavando con una lingua limpida e asciutta nella coscienza individuale e collettiva. Le sue storie parlano di emarginazione, silenzi, vigliaccherie quotidiane, ma anche di dignità, resistenza interiore e bellezza nascosta.

Perché leggerlo ancora oggi?
Perché nei suoi libri troviamo il coraggio della memoria. In un tempo in cui la velocità rischia di farci dimenticare le lezioni del passato, Bassani ci invita a fermarci, ad ascoltare i sussurri delle vite dimenticate, a chiederci chi siamo davvero quando il mondo ci chiama a scegliere da che parte stare.

I suoi personaggi non sono eroi, ma esseri umani pieni di contraddizioni, che spesso scelgono il silenzio, l’attesa, la malinconia. Eppure proprio in quella discrezione, in quell’umanità ferita, c’è la forza del suo messaggio: ricordare è un atto rivoluzionario, un modo per non cedere all’indifferenza.

Bassani era anche un editor coraggioso (fu lui a sostenere Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa), un intellettuale impegnato nella difesa del patrimonio culturale italiano, e un poeta dalla voce sommessa ma profondissima.

Oggi, nel ricordarlo, possiamo fare qualcosa di semplice ma importante: aprire uno dei suoi libri, magari proprio Gli occhiali d’oro o Dietro la porta, e lasciarci guidare da quella sua prosa limpida, che non ha mai cercato effetti speciali, ma solo verità.

Giorgio Bassani ci ha insegnato che ogni vita, anche la più nascosta, merita di essere raccontata. E che la letteratura, come un giardino segreto, può conservare per sempre la bellezza fragile delle cose perdute.

Come raccontava un articolo apparso sul Corriere della Sera il giorno successivo al suo funerale, a Ferrara si radunò una piccola folla, come nei suoi romanzi, attorno alla bara di un uomo che aveva dato voce ai silenzi della sua città.

Due donne — la moglie Valeria e la compagna Portia — sedevano l’una accanto all’altra, simbolo di una vita complessa, eppure coerente nel suo amore per la verità.

Lì, tra i cipressi del cimitero ebraico, Bassani tornava alla sua Ferrara in una scena che sembrava uscita da una delle sue pagine più belle. E come scrisse una volta immaginando la sua stessa morte, fu trasportato “in una grossa berlina metallizzata” a chiudere il cerchio di una storia che non smette di parlarci.

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LIBRI LETTI Ricorrenze...

Flannery O’Connor: Cento Anni di Grazia e Grottesco

Il 25 marzo 1925 nasceva a Savannah, in Georgia, Mary Flannery O’Connor, una delle voci più straordinarie della letteratura americana del Novecento. A cento anni dalla sua nascita, il suo lascito letterario continua ad esercitare un’influenza profonda su scrittori e lettori di tutto il mondo. Con il suo stile inconfondibile, caratterizzato da un realismo grottesco, una profondità spirituale e una sottile ironia, O’Connor ha saputo esplorare le contraddizioni dell’animo umano attraverso racconti e romanzi che ancora oggi lasciano il segno.

Un Destino Segnato dalla Malattia, ma Non dalla Rassegnazione

La vita di Flannery O’Connor è stata breve ma intensa. Segnata dalla precoce perdita del padre a causa del lupus, la stessa malattia che poi l’avrebbe colpita, O’Connor non si lasciò mai sopraffare dalle difficoltà. Dopo aver studiato alla Georgia State College for Women e successivamente all’Iowa Writers’ Workshop, si impose presto come una delle voci più originali della narrativa americana.

Nel 1952, all’età di soli 27 anni, le venne diagnosticato il lupus, una malattia che la costrinse a ritirarsi nella fattoria di famiglia, “Andalusia”, a Milledgeville, in Georgia. Qui, pur tra le limitazioni imposte dalla malattia, continuò a scrivere con una determinazione straordinaria, regalando alla letteratura alcune delle opere più potenti e incisive del secolo scorso​.

Lo Sguardo Inesorabile sul Sud e sulla Grazia Divina

Ambientate nel profondo Sud degli Stati Uniti, le storie di O’Connor raccontano un’America rurale e chiusa, attraversata da tensioni religiose, sociali e razziali. La sua fede cattolica, vissuta in un contesto prevalentemente protestante, fu un elemento centrale della sua scrittura. Nei suoi racconti, spesso dominati da eventi imprevisti e da epifanie violente, il concetto di grazia divina assume una forma concreta e drammatica. I suoi personaggi, spesso bigotti, fanatici o ingenui, si trovano faccia a faccia con verità sconvolgenti che li trasformano irreversibilmente​.

O’Connor era convinta che Dio si manifestasse soprattutto agli ultimi: ai ragazzini storpi, preda del demonio, e a quelli prigionieri del proprio egoismo; ai delinquenti pronti a estrarre la pistola; ai vecchi inurbati dalla campagna, desolati dinanzi alla finestra di fronte; ai rifiutati dal mondo. Il male, la sofferenza e la redenzione sono elementi centrali del suo universo narrativo, costruito con una straordinaria perizia stilistica e un’attenzione meticolosa all’effetto del colpo di scena, spesso decisivo nei suoi racconti.

Il suo stile è caratterizzato da una scrittura essenziale e da una visione cruda della realtà, spesso espressa attraverso figure grottesche e situazioni estreme. Questo approccio le ha permesso di sondare le profondità della condizione umana, mettendo in luce la fragilità, l’ipocrisia e il bisogno di redenzione che contraddistinguono molti dei suoi personaggi​.

Opere Indimenticabili e una Voce Unica

Tra le sue opere più celebri figurano i romanzi La saggezza nel sangue (Wise Blood, 1952) e Il cielo è dei violenti (The Violent Bear It Away, 1960), ma è nelle raccolte di racconti che la sua arte raggiunge il culmine. Un brav’uomo è difficile da trovare (A Good Man is Hard to Find, 1955) e Tutto ciò che sale deve convergere (Everything That Rises Must Converge, 1965) contengono alcune delle storie più incisive della letteratura americana, capaci di turbare e affascinare il lettore con il loro equilibrio tra realismo e trascendenza​.

O’Connor è stata anche un’acuta osservatrice e saggista. Il suo Diario di preghiera (A Prayer Journal, 2013, pubblicato postumo) offre una visione intima della sua spiritualità e del suo tormentato percorso di fede, mentre la sua corrispondenza, raccolta in The Habit of Being, rivela il suo spirito arguto e la sua profonda intelligenza​.

Un’eredità Letteraria senza Tempo

Flannery O’Connor morì il 3 agosto 1964, a soli 39 anni, lasciando un’impronta indelebile nella letteratura mondiale. La sua capacità di intrecciare il tragico e il comico, il divino e il quotidiano, il sacro e il perverso, continua a ispirare nuove generazioni di scrittori e lettori.

Per O’Connor, la scrittura era un dono, ma un dono che comportava una responsabilità enorme: ha infatti qualcosa in sé di gratuito, di immeritato (come la grazia) e deve far pensare al mistero. Il compito dello scrittore è soltanto quello: indagare nel proprio mistero. Lo scrittore non deve sapere cosa troverà in quel mistero. È finito, altrimenti.

A distanza di un secolo dalla sua nascita, la sua opera rimane un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia esplorare le complessità dell’animo umano attraverso la letteratura. In un’epoca in cui il confine tra bene e male si fa sempre più sfumato, la voce di Flannery O’Connor risuona più attuale che mai, ricordandoci che la grazia può manifestarsi nei modi più inaspettati, anche attraverso le crepe dell’imperfezione umana​.

Per celebrarne il centenario, non c’è modo migliore che rileggere La saggezza nel sangue (Wise Blood), il suo romanzo più iconico. Qui, il protagonista Hazel Motes incarna le contraddizioni tipiche dei personaggi di O’Connor: un uomo che tenta di sfuggire alla religione, solo per trovarsi inesorabilmente intrappolato nella sua orbita. Un viaggio nel grottesco e nel tragico, un racconto di fede e disperazione che continua a interrogare i lettori di ogni epoca.

Se non avete mai letto O’Connor, questo è il momento perfetto per farlo. Se già la conoscete, tornate alle sue pagine: vi parleranno ancora, forse in modo nuovo.

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Lo scrittore artigiano

Oltre San Valentino

Oltre San Valentino

San Valentino è alle porte, e con lui arriva la consueta celebrazione dell’amore in tutte le sue forme. Ma in un mondo frenetico dominato dallo spirito del consumo, ci siamo mai fermati davvero a chiederci: cosa significa amare? E soprattutto, chi amiamo e perché?

Alcuni giorni fa, in metropolitana, mi è capitato di osservare un ragazzo che inviava un grande cuore rosso su WhatsApp. Non ho potuto, né voluto, leggere il messaggio che lo accompagnava (senza occhiali sono cieco come una talpa), ma era evidente che quel cuore fosse destinato ad una persona speciale.

Piccola digressione: gli emoji ci stanno riportando agli albori della scrittura. Cinquemila anni fa gli Egizi comunicavano con i geroglifici, e cosa sono gli emoji se non i loro discendenti digitali? Tra cent’anni scriveremo la parola amore semplicemente disegnando un cuore? Forse sì. Ma come rappresenteremo con una faccina o un simbolo tutte le sfumature di questo sentimento?

Ma torniamo alla domanda principale: cosa significa amare?

L’ etimologia della parola può fornirci qualche indizio. Amore deriva dal latino amor, amoris, e ha mantenuto nel tempo il suo significato legato all’affetto, al desiderio e alla passione.

Secondo alcune ipotesi, l’origine più profonda della parola potrebbe derivare:

dal verbo latino amare, che significava provare affetto, voler bene.

da a-mors (senza morte), un’interpretazione più poetica che associa l’amore a qualcosa di eterno.

dalla radice indoeuropea amma- o ama-, un suono affettuoso presente anche in parole come mamma e amico.

L’ amore insomma è la forza che ci sostiene, la spinta vitale che ci lega a una persona o a qualcosa per mezzo di affetto, desiderio o passione. Questi sentimenti possono rivolgersi ai nostri genitori — coloro che ci hanno dato la vita e ci hanno permesso di sperimentare l’amore — oppure al nostro partner, ai figli, o ancora a una disciplina, un’arte, una passione che ci fa sentire vivi.

Un simile amore non avrebbe neppure bisogno di essere festeggiato una volta all’anno: ci nutre e ci accompagna costantemente, e senza di esso non saremmo ciò che siamo. Non saremmo umani. In fondo, l’amore è ciò che definisce la nostra umanità: ci porta a compiere gesti e azioni che mai avremmo immaginato di fare, specialmente verso chi è “altro” da noi, anche se non dobbiamo mai trascurare l’amore verso noi stessi.

Proviamo però a cambiare prospettiva: che cosa significherebbe amare gli altri come li amerebbe Dio?

Come Dio ama il mondo, gli esseri viventi, gli uomini che lo abitano? Se solo potessimo amare come ama Dio, non ci sarebbero più guerre, carestie o attentati; non ci sarebbero morti, malattie, incendi dolosi. Gli assassini si pentirebbero del male commesso, i truffatori restituirebbero il maltolto e nessuno si metterebbe al volante sotto l’effetto di droga o alcol. E la lista purtroppo sarebbe ancora lunga.

Se soltanto riuscissimo ad amare il mondo come lo ama Dio, allora il mondo rimarrebbe così com’è ora, ma noi lo ameremmo per davvero. 

Infatti che cos’è l’amore se non quell’atto divino che ciascuno di noi ha la possibilità di compiere quotidianamente? 

In questo San Valentino, forse la sfida più grande è proprio questa: riscoprire e vivere un amore autentico, capace di superare le superficialità del consumo e di trasformare la nostra quotidianità in un continuo atto di cura e rispetto reciproco.

Volendo tradurre il significato ultimo di quanto scritto in forma poetica, mi viene in mente il testo di una bellissima canzone di Claudio Chieffo, Ballata dell’amore vero, che recita:

Buon San Valentino a tutti.

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LIBRI LETTI

Sessualità e Politica: le riflessioni di Giancarlo Ricci alla luce del presente

Scritto circa dieci anni fa, il libro Sessualità e Politica di Giancarlo Ricci ritorna oggi di straordinaria attualità. La recente elezione di Donald Trump e le polemiche riaccese attorno alle tematiche di genere rendono queste pagine uno strumento prezioso per chiunque voglia comprendere più a fondo il dibattito contemporaneo.

Giancarlo Ricci, psicoanalista e pensatore originale, ha esplorato in questo libro i legami profondi tra sessualità, ideologia e potere. Uno degli aspetti più affascinanti del testo è il modo in cui distingue la soggettività individuale dalla dimensione ideologica: Ricci separa con lucidità la omosessualità come esperienza personale dall’omosessualismo come fenomeno sociale e politico. In questo modo, egli si oppone a ogni forma di etichettatura imposta dall’esterno, sottolineando l’importanza di rispettare le esperienze individuali, accogliendo e aiutando chi vive queste realtà senza giudizi o pregiudizi.

Ricci mette in guardia contro il rischio che l’ideologia gender, come la chiama lui, possa negare le radici profonde della psicoanalisi. Secondo l’autore, l’idea di amputazione antropologica proposta in nome della libertà di espressione e dei diritti rischia di ridurre l’umano a un semplice Io narcisistico. Questo tema, apparentemente complesso, si traduce in una riflessione fondamentale sulla società moderna: quali sono le basi del nostro essere umano? E come possiamo proteggerle senza scadere in estremismi di parte?

Alla luce dei recenti sviluppi politici, Sessualità e Politica ci invita a riflettere su come fenomeni come il trumpismo, con la sua carica di polarizzazione sociale, amplifichino le tensioni su temi come l’identità e il corpo. Nonostante il contesto storico sia cambiato, le dinamiche descritte da Ricci rimangono sorprendentemente simili: una lotta tra il desiderio di autodeterminazione e le strutture sociali che spesso tentano di ridurlo a slogan o propaganda.

Ma forse la lezione più importante del libro è la necessità di ascolto e dialogo, soprattutto verso chi vive in prima persona la complessità dell’identità sessuale. Ricci non demonizza, né semplifica: egli invita a guardare oltre gli schemi rigidi per cogliere la profondità della psiche umana. La sua analisi, pur tagliente e a tratti provocatoria, è una chiamata a una riflessione autentica, libera dalle polemiche sterili che spesso invadono i dibattiti pubblici.

In un’epoca in cui il confronto su questi temi è spesso ridotto a scontri ideologici, Sessualità e Politica ci ricorda l’importanza di un approccio che non emargini, ma accolga. Un messaggio che, oggi più che mai, suona come una sfida e un’opportunità per ricostruire un senso autentico di comunità e umanità.