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Costruire nel deserto: il titolo del Meeting 2025

“Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi.”
È il titolo dell’edizione 2025 del Meeting di Rimini. Un verso tratto dai Cori da “La Rocca” di T.S. Eliot. E, come spesso accade con i titoli del Meeting, non è uno slogan: è una sfida.

Viviamo tempi in cui molti “luoghi deserti” ci circondano. Non si tratta solo di paesaggi fisici, ma soprattutto di spazi interiori e sociali: la solitudine, il disincanto, il senso di smarrimento che spesso accompagna il nostro vivere quotidiano; le relazioni che si fanno fragili, il lavoro che perde senso, la realtà che appare arida e opaca.
Sono deserti silenziosi, ma profondi. Eppure, proprio lì può nascere qualcosa di nuovo.

Il titolo di quest’anno ci ricorda che il deserto non è la fine, ma un inizio possibile.
È lì che siamo chiamati a costruire — con mattoni nuovi. Non con vecchie soluzioni, non con strategie di potere o tecnocrazie senz’anima, ma con gratitudine, libertà e desiderio di bene.

Questo spirito si ritrova con forza anche nelle mostre del Meeting 2025, che toccano temi attualissimi:
– la testimonianza coraggiosa di uomini come Vasilij Grossman,
– la freschezza della fede di Carlo Acutis,
– la fedeltà silenziosa dei martiri di Tibhirine,
– figure come San Francesco o il banchiere visionario Amadeo Giannini,
– la sfida dell’innovazione e del lavoro in contesti di crisi,
– la riscoperta della bellezza nell’arte romanica, nella fotografia contemporanea e persino nei materiali scientifici del futuro.

Tra questi percorsi, mi hanno colpito in particolare due figure, lontane tra loro per tempo e contesto, ma vicine per profondità e testimonianza.

Vasilij Grossman, scrittore e giornalista sovietico, ha vissuto in prima linea i grandi drammi del Novecento: la Seconda guerra mondiale, la Shoah, il totalitarismo.
Ha raccontato tutto questo con uno sguardo umano, libero, spesso scomodo per il regime. Il suo romanzo Vita e destino fu sequestrato dal KGB, ma oggi è considerato un capolavoro.
Grossman ha attraversato l’orrore senza cedere al cinismo, cercando in ogni frammento di storia una scintilla di verità, di bene, di giustizia.
È uno che ha costruito — con parole, con memoria, con coscienza — in mezzo al deserto del terrore e della censura.

Carlo Acutis, invece, è un ragazzo del nostro tempo.
Classe 1991, vissuto solo 15 anni, è stato capace di vivere la fede con semplicità e passione in piena era digitale.
Amava la tecnologia, i videogiochi, internet. Ma più di tutto amava l’Eucaristia, che chiamava “la mia autostrada per il cielo”.
Ha creato un sito per far conoscere i miracoli eucaristici nel mondo, perché nessuno dimenticasse che Gesù è presente.
Un ragazzo come tanti, ma con una luce dentro. Un mattone nuovo, fragile e potente, nella costruzione di un mondo più vero.

E poi ci sono le esperienze che commuovono: la disabilità vissuta in famiglia con dignità e amore, la memoria del dramma ucraino, la forza della riconciliazione in tempi di guerra.

Tutte queste mostre raccontano storie vere, che mostrano come si possa davvero ricostruire anche dove tutto sembra perduto. Mattoni nuovi, appunto: relazioni autentiche, progetti generosi, uno sguardo pieno di speranza.

Il Meeting 2025 non sarà solo un insieme di incontri. Sarà un cammino tra testimoni, un laboratorio di fiducia nel futuro, dove chiunque può riscoprire la propria vocazione a costruire, a prendersi cura, a non cedere al deserto.

Io ci sarò. E tu?

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Perché ogni anno torno al Meeting di Rimini

La prima volta che ho messo piede al Meeting di Rimini dev’essere stato nel 1985 o 1986. Avevo circa vent’anni, ed ero in cerca. In cerca di qualcosa che ancora non sapevo definire, ma che sentivo mancarmi: uno sguardo più ampio sul mondo, una compagnia sincera nel vivere le domande di sempre, un luogo dove la realtà non fosse un peso ma una promessa.

Ricordo l’atmosfera fin da subito: intensa, piena, diversa. Le giornate scorrevano tra incontri inaspettati, parole che ti rimanevano dentro, mostre che sembravano parlare direttamente alla tua vita. E soprattutto persone. Persone di ogni età, provenienza, lingua, cultura. Era come trovarsi, all’improvviso, nel cuore pulsante dell’umanità. Come se per qualche giorno, in quel pezzo di Fiera, il mondo intero si fosse dato appuntamento per cercare insieme ciò che conta davvero.

Da allora, ho sempre portato il Meeting dentro di me, anche nei periodi in cui non riuscivo ad andarci. Quando sono nati i miei figli, io e mia moglie Paola abbiamo fatto una pausa di dieci anni. Non ce la sentivamo di affrontare una settimana così “intensa” con bambini così piccoli. Ma la nostalgia era forte. Ogni estate, quando arrivavano le giornate di agosto, sentivo che mi mancava qualcosa.

Poi, appena possibile, ci siamo tornati. Tutti insieme. Ed è stato ancora più bello. Perché con la mia famiglia accanto, quelle giornate sono diventate occasione di crescita condivisa, di sguardi che si incrociano davanti a una mostra, di domande che si riaccendono ascoltando una testimonianza. E da allora, non ho più smesso.

Ogni anno, quando organizzo le ferie, c’è una settimana che non si tocca: quella del Meeting. Lo considero un appuntamento con la mia umanità. Un tempo privilegiato in cui rimettere a fuoco le cose essenziali, lasciarmi provocare, respirare un’aria diversa. Non importa quanto sia stanco, confuso o distratto: torno sempre da lì con il cuore più leggero e il passo più deciso.

Ogni volta che varco l’ingresso della Fiera, provo lo stesso stupore di quella prima volta. E ogni volta torno a casa con qualcosa di nuovo. Un volto, un’idea, un dolore condiviso, una speranza rilanciata. È come se ogni anno il Meeting mi aiutasse a cominciare di nuovo, a vivere con più consapevolezza i dodici mesi successivi.

Per questo comincio oggi una piccola serie di post. Non per spiegare cos’è “il Meeting” in generale, ma per raccontare cosa significa per me.

Il titolo del Meeting 2025 è:
“Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi”

Un verso di T.S. Eliot che ci invita a non arrenderci di fronte al vuoto e alla fatica del presente. È un invito a scoprire che proprio nei momenti più aridi della storia può nascere qualcosa di nuovo: relazioni vere, cura del bene comune, lavoro creativo, iniziative che danno speranza.

Costruire non con illusioni di potere o strategie fredde, ma con gratitudine e libertà, valorizzando tutto ciò che abbiamo ricevuto. È così che si colmano i deserti: non da soli, ma insieme, riscoprendo il desiderio di condividere il cammino verso ciò che è vero, buono e giusto.

Il Meeting offre ogni anno questa possibilità. Ed io non riesco a farne a meno.

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LIBRI LETTI

Dio ci conosce col nostro vero nome

Ho letto questo libro di Mariagrazia Magon in un paio d’ore, ma mi rimarrà dentro per il resto della mia vita. È un racconto bellissimo, toccante, e – soprattutto – necessario. Per chi, come me, non sa nulla o quasi di cosa significhi vivere con un figlio autistico, questo libro apre uno squarcio autentico, profondo e pieno di umanità.

L’autrice ci porta dentro la sua esperienza personale, quotidiana, a volte umoristica, mai disperata, di madre di Francesco, un bambino con autismo. Non si tratta di una guida tecnica né di un saggio clinico: è il racconto di una vita vera, fatta di piccoli gesti, battaglie silenziose, intuizioni improvvise e tanto amore.

E a sostenere tutto questo, in filigrana eppure potentissima, c’è la fede. Una fede profonda, autentica, che attraversa ogni pagina e che ha sorretto questa madre nei momenti più duri. Mariagrazia non si è mai lasciata andare, ha riposto in Dio la sua massima fiducia, e questa fiducia traspare in ogni scelta, in ogni parola, in ogni abbraccio raccontato.

Ma la fede – come lei stessa ricorda – ha bisogno di volti, di persone vicine, di mani che si stringono.

Come scrive nel capitolo 37:
“E soprattutto non mi sono mai mancati gli amici, quelli veri, quelli che guardano le mie ferite senza girare la testa. Quando vivi certe esperienze non ti accontenti più degli amici con i quali stai solo in superficie, coi quali non parli mai dei veri problemi e stai con loro per ‘anestetizzarti’, perché tanto ‘va tutto bene’, quando invece non è affatto vero che ‘va tutto bene’. Perché questa è la vita: a volte va bene, a volte non va bene. Ho avuto la straordinaria fortuna di trovare amici che hanno lo sguardo nella stessa direzione di dove guardo io.”

Ciò che colpisce è la capacità dell’autrice di comunicare non solo il dolore, ma anche la gioia, la scoperta continua, il valore della diversità e della relazione. È un invito a guardare le persone oltre le etichette, a riconoscere ogni individuo per quello che è, nel profondo. Perché – come dice il titolo – Dio ci conosce col nostro vero nome.

Un libro che consiglio a tutti: genitori, insegnanti, educatori… ma anche e soprattutto a chi vuole capire, anche solo un po’, cosa significhi essere davvero vicini a chi vive e ama una persona con autismo.

Il ricavato della vendita del libro sarà interamente devoluto a ANGSA Lombardia – Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici: un motivo in più per leggerlo, condividerlo e farlo conoscere.

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Ricorrenze...

Eduardo De Filippo: L’Anima di Napoli, la Voce dell’Umanità

La pagina del Corriere della Sera del 10 aprile 1934 con la recensione di “Natale in casa Cupiello”

Il 24 maggio 2025 ricorreranno 125 anni dalla nascita di Eduardo De Filippo, un gigante del teatro italiano, un artista che ha saputo come pochi far vibrare le corde dell’anima umana. La sua eredità, un tesoro di commedie indimenticabili e di una profonda comprensione dell’animo umano, continua a vivere nei cuori di chi lo scopre.   

È stato mio nonno Raffaele a farmi conoscere Eduardo. Ricordo ancora la sua ammirazione per quest’uomo capace di suscitare riso, commozione e riflessione, tutto in un unico istante. Un maestro, un punto di riferimento, un amico sincero attraverso le sue opere.   

Chi era Eduardo?

Nato a Napoli nel 1900, Eduardo De Filippo calcò le scene fin da giovanissimo, respirando l’aria del palcoscenico come fosse la sua stessa essenza. La sua vita fu un atto d’amore verso il teatro: autore prolifico, attore carismatico, regista visionario e fondatore di compagnie. Ma Eduardo era molto più di un semplice uomo di teatro. Era un poeta del quotidiano.   

Le sue opere sono finestre aperte sulla vita vera, quella intessuta di sogni e speranze, ma anche di difficoltà, delusioni e legami familiari. Ha creato commedie che sono ormai leggende, pietre miliari della drammaturgia italiana: Natale in casa CupielloFilumena MarturanoNapoli milionaria! e Questi fantasmi! In questi capolavori, Eduardo mescolava con maestria umorismo e malinconia, dando voce alla gente comune con una verità e un’autenticità che arrivano dritte al cuore.   

Un Uomo che Comprendeva l’Animo Umano

Eduardo non scriveva per mettersi in mostra, per esibire la sua bravura. Il suo teatro nasceva dal desiderio profondo di comunicare, di creare un ponte con il pubblico. Utilizzava il dialetto napoletano, è vero, ma le sue storie superano i confini linguistici e geografici, toccando l’universalità dell’esperienza umana. Amore, povertà, il bisogno di essere ascoltati, la ricerca della felicità: temi eterni che risuonano in ogni cuore, in ogni tempo.   

La sua celebre battuta, “Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”, è un esempio perfetto della sua capacità di unire il riso alla riflessione. Eduardo sapeva scovare la poesia nelle piccole cose, la verità nei silenzi, l’umanità nelle fragilità.   

Un Riconoscimento Mancato, Un’Eredità Immortale

Nel 1981, fu nominato senatore a vita, un riconoscimento prestigioso per il suo contributo alla cultura italiana. Tuttavia, per molti, e mi unisco a questo coro, avrebbe meritato il Premio Nobel per la Letteratura, il sigillo di un genio. Le sue opere hanno varcato i confini nazionali, tradotte, amate e rappresentate in tutto il mondo.   

Ma forse, la sua grandezza più autentica risiede nella sua capacità di essere sempre attuale, di parlare al presente anche senza l’investitura di un premio. La sua eredità è viva, pulsante, custodita nel cuore di chi lo legge, lo ascolta e lo vede in scena ancora oggi.   

Perché Eduardo è Importante per le Nuove Generazioni

Eduardo De Filippo è un maestro che ci aiuta a comprendere più profondamente chi siamo. I suoi personaggi non sono eroi senza macchia, ma esseri umani con le loro fragilità, le loro contraddizioni, le loro debolezze. Sono comici e tragici allo stesso tempo, ma soprattutto veri.   

In un’epoca dominata dalla velocità e dall’apparenza, Eduardo ci invita a rallentare, a guardare dentro noi stessi, ad ascoltare gli altri, a coltivare la profondità dell’animo. Avvicinarsi al suo teatro può sembrare strano all’inizio, un tuffo in un mondo lontano. Ma ben presto, nasce un’affezione sincera, un legame indissolubile. Perché si comprende che, al di là del tempo trascorso, quelle storie parlano anche di noi, delle nostre vite, delle nostre emozioni.   

Eduardo De Filippo non è semplicemente un capitolo della storia del teatro. È uno specchio nel quale possiamo ancora oggi rifletterci, per comprendere un po’ meglio la complessità e la bellezza dell’esistenza.   

Buon compleanno, Maestro. La tua voce continua a risuonare nei nostri cuori.

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Ricorrenze...

In ricordo di Giorgio Bassani: la memoria come resistenza silenziosa

Corriere della Sera

Il 13 aprile del 2000 ci lasciava Giorgio Bassani, uno dei più intensi e raffinati narratori del Novecento italiano. A venticinque anni dalla sua scomparsa, il suo sguardo delicato ma implacabile sulla Storia continua a parlarci, a insegnarci, a farci riflettere.

Bassani è l’autore de Il giardino dei Finzi-Contini, romanzo simbolo della memoria, della perdita e della distanza tra ciò che siamo e ciò che avremmo potuto essere. Ambientato nella Ferrara della sua giovinezza, attraversata dalle leggi razziali e dalle ombre del fascismo, questo libro ci racconta non solo la tragedia della persecuzione ebraica, ma anche il dramma universale dell’esclusione, dell’illusione e della fragilità delle relazioni umane.

Ma Bassani è molto più di un solo romanzo. Con il ciclo narrativo Il romanzo di Ferrara ha costruito un affresco vivido e doloroso dell’Italia tra gli anni ’30 e il dopoguerra, scavando con una lingua limpida e asciutta nella coscienza individuale e collettiva. Le sue storie parlano di emarginazione, silenzi, vigliaccherie quotidiane, ma anche di dignità, resistenza interiore e bellezza nascosta.

Perché leggerlo ancora oggi?
Perché nei suoi libri troviamo il coraggio della memoria. In un tempo in cui la velocità rischia di farci dimenticare le lezioni del passato, Bassani ci invita a fermarci, ad ascoltare i sussurri delle vite dimenticate, a chiederci chi siamo davvero quando il mondo ci chiama a scegliere da che parte stare.

I suoi personaggi non sono eroi, ma esseri umani pieni di contraddizioni, che spesso scelgono il silenzio, l’attesa, la malinconia. Eppure proprio in quella discrezione, in quell’umanità ferita, c’è la forza del suo messaggio: ricordare è un atto rivoluzionario, un modo per non cedere all’indifferenza.

Bassani era anche un editor coraggioso (fu lui a sostenere Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa), un intellettuale impegnato nella difesa del patrimonio culturale italiano, e un poeta dalla voce sommessa ma profondissima.

Oggi, nel ricordarlo, possiamo fare qualcosa di semplice ma importante: aprire uno dei suoi libri, magari proprio Gli occhiali d’oro o Dietro la porta, e lasciarci guidare da quella sua prosa limpida, che non ha mai cercato effetti speciali, ma solo verità.

Giorgio Bassani ci ha insegnato che ogni vita, anche la più nascosta, merita di essere raccontata. E che la letteratura, come un giardino segreto, può conservare per sempre la bellezza fragile delle cose perdute.

Come raccontava un articolo apparso sul Corriere della Sera il giorno successivo al suo funerale, a Ferrara si radunò una piccola folla, come nei suoi romanzi, attorno alla bara di un uomo che aveva dato voce ai silenzi della sua città.

Due donne — la moglie Valeria e la compagna Portia — sedevano l’una accanto all’altra, simbolo di una vita complessa, eppure coerente nel suo amore per la verità.

Lì, tra i cipressi del cimitero ebraico, Bassani tornava alla sua Ferrara in una scena che sembrava uscita da una delle sue pagine più belle. E come scrisse una volta immaginando la sua stessa morte, fu trasportato “in una grossa berlina metallizzata” a chiudere il cerchio di una storia che non smette di parlarci.

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LIBRI LETTI Ricorrenze...

Flannery O’Connor: Cento Anni di Grazia e Grottesco

Il 25 marzo 1925 nasceva a Savannah, in Georgia, Mary Flannery O’Connor, una delle voci più straordinarie della letteratura americana del Novecento. A cento anni dalla sua nascita, il suo lascito letterario continua ad esercitare un’influenza profonda su scrittori e lettori di tutto il mondo. Con il suo stile inconfondibile, caratterizzato da un realismo grottesco, una profondità spirituale e una sottile ironia, O’Connor ha saputo esplorare le contraddizioni dell’animo umano attraverso racconti e romanzi che ancora oggi lasciano il segno.

Un Destino Segnato dalla Malattia, ma Non dalla Rassegnazione

La vita di Flannery O’Connor è stata breve ma intensa. Segnata dalla precoce perdita del padre a causa del lupus, la stessa malattia che poi l’avrebbe colpita, O’Connor non si lasciò mai sopraffare dalle difficoltà. Dopo aver studiato alla Georgia State College for Women e successivamente all’Iowa Writers’ Workshop, si impose presto come una delle voci più originali della narrativa americana.

Nel 1952, all’età di soli 27 anni, le venne diagnosticato il lupus, una malattia che la costrinse a ritirarsi nella fattoria di famiglia, “Andalusia”, a Milledgeville, in Georgia. Qui, pur tra le limitazioni imposte dalla malattia, continuò a scrivere con una determinazione straordinaria, regalando alla letteratura alcune delle opere più potenti e incisive del secolo scorso​.

Lo Sguardo Inesorabile sul Sud e sulla Grazia Divina

Ambientate nel profondo Sud degli Stati Uniti, le storie di O’Connor raccontano un’America rurale e chiusa, attraversata da tensioni religiose, sociali e razziali. La sua fede cattolica, vissuta in un contesto prevalentemente protestante, fu un elemento centrale della sua scrittura. Nei suoi racconti, spesso dominati da eventi imprevisti e da epifanie violente, il concetto di grazia divina assume una forma concreta e drammatica. I suoi personaggi, spesso bigotti, fanatici o ingenui, si trovano faccia a faccia con verità sconvolgenti che li trasformano irreversibilmente​.

O’Connor era convinta che Dio si manifestasse soprattutto agli ultimi: ai ragazzini storpi, preda del demonio, e a quelli prigionieri del proprio egoismo; ai delinquenti pronti a estrarre la pistola; ai vecchi inurbati dalla campagna, desolati dinanzi alla finestra di fronte; ai rifiutati dal mondo. Il male, la sofferenza e la redenzione sono elementi centrali del suo universo narrativo, costruito con una straordinaria perizia stilistica e un’attenzione meticolosa all’effetto del colpo di scena, spesso decisivo nei suoi racconti.

Il suo stile è caratterizzato da una scrittura essenziale e da una visione cruda della realtà, spesso espressa attraverso figure grottesche e situazioni estreme. Questo approccio le ha permesso di sondare le profondità della condizione umana, mettendo in luce la fragilità, l’ipocrisia e il bisogno di redenzione che contraddistinguono molti dei suoi personaggi​.

Opere Indimenticabili e una Voce Unica

Tra le sue opere più celebri figurano i romanzi La saggezza nel sangue (Wise Blood, 1952) e Il cielo è dei violenti (The Violent Bear It Away, 1960), ma è nelle raccolte di racconti che la sua arte raggiunge il culmine. Un brav’uomo è difficile da trovare (A Good Man is Hard to Find, 1955) e Tutto ciò che sale deve convergere (Everything That Rises Must Converge, 1965) contengono alcune delle storie più incisive della letteratura americana, capaci di turbare e affascinare il lettore con il loro equilibrio tra realismo e trascendenza​.

O’Connor è stata anche un’acuta osservatrice e saggista. Il suo Diario di preghiera (A Prayer Journal, 2013, pubblicato postumo) offre una visione intima della sua spiritualità e del suo tormentato percorso di fede, mentre la sua corrispondenza, raccolta in The Habit of Being, rivela il suo spirito arguto e la sua profonda intelligenza​.

Un’eredità Letteraria senza Tempo

Flannery O’Connor morì il 3 agosto 1964, a soli 39 anni, lasciando un’impronta indelebile nella letteratura mondiale. La sua capacità di intrecciare il tragico e il comico, il divino e il quotidiano, il sacro e il perverso, continua a ispirare nuove generazioni di scrittori e lettori.

Per O’Connor, la scrittura era un dono, ma un dono che comportava una responsabilità enorme: ha infatti qualcosa in sé di gratuito, di immeritato (come la grazia) e deve far pensare al mistero. Il compito dello scrittore è soltanto quello: indagare nel proprio mistero. Lo scrittore non deve sapere cosa troverà in quel mistero. È finito, altrimenti.

A distanza di un secolo dalla sua nascita, la sua opera rimane un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia esplorare le complessità dell’animo umano attraverso la letteratura. In un’epoca in cui il confine tra bene e male si fa sempre più sfumato, la voce di Flannery O’Connor risuona più attuale che mai, ricordandoci che la grazia può manifestarsi nei modi più inaspettati, anche attraverso le crepe dell’imperfezione umana​.

Per celebrarne il centenario, non c’è modo migliore che rileggere La saggezza nel sangue (Wise Blood), il suo romanzo più iconico. Qui, il protagonista Hazel Motes incarna le contraddizioni tipiche dei personaggi di O’Connor: un uomo che tenta di sfuggire alla religione, solo per trovarsi inesorabilmente intrappolato nella sua orbita. Un viaggio nel grottesco e nel tragico, un racconto di fede e disperazione che continua a interrogare i lettori di ogni epoca.

Se non avete mai letto O’Connor, questo è il momento perfetto per farlo. Se già la conoscete, tornate alle sue pagine: vi parleranno ancora, forse in modo nuovo.

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Lo scrittore artigiano

Oltre San Valentino

Oltre San Valentino

San Valentino è alle porte, e con lui arriva la consueta celebrazione dell’amore in tutte le sue forme. Ma in un mondo frenetico dominato dallo spirito del consumo, ci siamo mai fermati davvero a chiederci: cosa significa amare? E soprattutto, chi amiamo e perché?

Alcuni giorni fa, in metropolitana, mi è capitato di osservare un ragazzo che inviava un grande cuore rosso su WhatsApp. Non ho potuto, né voluto, leggere il messaggio che lo accompagnava (senza occhiali sono cieco come una talpa), ma era evidente che quel cuore fosse destinato ad una persona speciale.

Piccola digressione: gli emoji ci stanno riportando agli albori della scrittura. Cinquemila anni fa gli Egizi comunicavano con i geroglifici, e cosa sono gli emoji se non i loro discendenti digitali? Tra cent’anni scriveremo la parola amore semplicemente disegnando un cuore? Forse sì. Ma come rappresenteremo con una faccina o un simbolo tutte le sfumature di questo sentimento?

Ma torniamo alla domanda principale: cosa significa amare?

L’ etimologia della parola può fornirci qualche indizio. Amore deriva dal latino amor, amoris, e ha mantenuto nel tempo il suo significato legato all’affetto, al desiderio e alla passione.

Secondo alcune ipotesi, l’origine più profonda della parola potrebbe derivare:

dal verbo latino amare, che significava provare affetto, voler bene.

da a-mors (senza morte), un’interpretazione più poetica che associa l’amore a qualcosa di eterno.

dalla radice indoeuropea amma- o ama-, un suono affettuoso presente anche in parole come mamma e amico.

L’ amore insomma è la forza che ci sostiene, la spinta vitale che ci lega a una persona o a qualcosa per mezzo di affetto, desiderio o passione. Questi sentimenti possono rivolgersi ai nostri genitori — coloro che ci hanno dato la vita e ci hanno permesso di sperimentare l’amore — oppure al nostro partner, ai figli, o ancora a una disciplina, un’arte, una passione che ci fa sentire vivi.

Un simile amore non avrebbe neppure bisogno di essere festeggiato una volta all’anno: ci nutre e ci accompagna costantemente, e senza di esso non saremmo ciò che siamo. Non saremmo umani. In fondo, l’amore è ciò che definisce la nostra umanità: ci porta a compiere gesti e azioni che mai avremmo immaginato di fare, specialmente verso chi è “altro” da noi, anche se non dobbiamo mai trascurare l’amore verso noi stessi.

Proviamo però a cambiare prospettiva: che cosa significherebbe amare gli altri come li amerebbe Dio?

Come Dio ama il mondo, gli esseri viventi, gli uomini che lo abitano? Se solo potessimo amare come ama Dio, non ci sarebbero più guerre, carestie o attentati; non ci sarebbero morti, malattie, incendi dolosi. Gli assassini si pentirebbero del male commesso, i truffatori restituirebbero il maltolto e nessuno si metterebbe al volante sotto l’effetto di droga o alcol. E la lista purtroppo sarebbe ancora lunga.

Se soltanto riuscissimo ad amare il mondo come lo ama Dio, allora il mondo rimarrebbe così com’è ora, ma noi lo ameremmo per davvero. 

Infatti che cos’è l’amore se non quell’atto divino che ciascuno di noi ha la possibilità di compiere quotidianamente? 

In questo San Valentino, forse la sfida più grande è proprio questa: riscoprire e vivere un amore autentico, capace di superare le superficialità del consumo e di trasformare la nostra quotidianità in un continuo atto di cura e rispetto reciproco.

Volendo tradurre il significato ultimo di quanto scritto in forma poetica, mi viene in mente il testo di una bellissima canzone di Claudio Chieffo, Ballata dell’amore vero, che recita:

Buon San Valentino a tutti.

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LIBRI LETTI

Sessualità e Politica: le riflessioni di Giancarlo Ricci alla luce del presente

Scritto circa dieci anni fa, il libro Sessualità e Politica di Giancarlo Ricci ritorna oggi di straordinaria attualità. La recente elezione di Donald Trump e le polemiche riaccese attorno alle tematiche di genere rendono queste pagine uno strumento prezioso per chiunque voglia comprendere più a fondo il dibattito contemporaneo.

Giancarlo Ricci, psicoanalista e pensatore originale, ha esplorato in questo libro i legami profondi tra sessualità, ideologia e potere. Uno degli aspetti più affascinanti del testo è il modo in cui distingue la soggettività individuale dalla dimensione ideologica: Ricci separa con lucidità la omosessualità come esperienza personale dall’omosessualismo come fenomeno sociale e politico. In questo modo, egli si oppone a ogni forma di etichettatura imposta dall’esterno, sottolineando l’importanza di rispettare le esperienze individuali, accogliendo e aiutando chi vive queste realtà senza giudizi o pregiudizi.

Ricci mette in guardia contro il rischio che l’ideologia gender, come la chiama lui, possa negare le radici profonde della psicoanalisi. Secondo l’autore, l’idea di amputazione antropologica proposta in nome della libertà di espressione e dei diritti rischia di ridurre l’umano a un semplice Io narcisistico. Questo tema, apparentemente complesso, si traduce in una riflessione fondamentale sulla società moderna: quali sono le basi del nostro essere umano? E come possiamo proteggerle senza scadere in estremismi di parte?

Alla luce dei recenti sviluppi politici, Sessualità e Politica ci invita a riflettere su come fenomeni come il trumpismo, con la sua carica di polarizzazione sociale, amplifichino le tensioni su temi come l’identità e il corpo. Nonostante il contesto storico sia cambiato, le dinamiche descritte da Ricci rimangono sorprendentemente simili: una lotta tra il desiderio di autodeterminazione e le strutture sociali che spesso tentano di ridurlo a slogan o propaganda.

Ma forse la lezione più importante del libro è la necessità di ascolto e dialogo, soprattutto verso chi vive in prima persona la complessità dell’identità sessuale. Ricci non demonizza, né semplifica: egli invita a guardare oltre gli schemi rigidi per cogliere la profondità della psiche umana. La sua analisi, pur tagliente e a tratti provocatoria, è una chiamata a una riflessione autentica, libera dalle polemiche sterili che spesso invadono i dibattiti pubblici.

In un’epoca in cui il confronto su questi temi è spesso ridotto a scontri ideologici, Sessualità e Politica ci ricorda l’importanza di un approccio che non emargini, ma accolga. Un messaggio che, oggi più che mai, suona come una sfida e un’opportunità per ricostruire un senso autentico di comunità e umanità.

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LIBRI LETTI

La forza della vita: una lettura per anime forti

A Più Libri Più Liberi, presso lo stand della casa editrice Segui le tue parole, mi sono imbattuto in un libro che lascia il segno: La forza della vita di Giulia Leone. Non è una lettura per chi cerca svago o leggerezza, ma un’opera che parla direttamente al cuore di chi ha il coraggio di affrontare la vita, in tutte le sue sfide.

Giulia è stata una ragazza straordinaria, nata con una rara malattia genetica, la neurofibromatosi di tipo 1. In questo memoriale, scritto fino a pochi giorni prima di trovare una pace che su questa terra le è stata negata, ci regala uno spaccato della sua vita: i suoi pensieri, i suoi sogni, le sue speranze. Sono pagine che raccontano una battaglia quotidiana, quella di una giovane donna di vent’anni che, come tante sue coetanee, desiderava semplicemente vivere. Eppure, la vita, con crudele indifferenza, le ha sbarrato la strada.

Questo libro, oltre che farci riflettere sulla sofferenza, ci invita ad apprezzare la semplicità: una passeggiata all’aria aperta, un giro in bicicletta, il piacere di uscire quando vogliamo. Tutti gesti che diamo per scontati, ma che per qualcuno, come Giulia, possono diventare desideri irraggiungibili.

Leggendo queste righe, ho pensato a una persona a me molto cara: il mio testimone di nozze, Ugo Rossi. Per cinque lunghi anni ha affrontato la SLA, vedendo il suo corpo spegnersi giorno dopo giorno, mentre la mente rimaneva lucida e attenta. Anche lui, come Giulia, ha affrontato la malattia con una forza straordinaria, nutrendo fino all’ultimo una speranza: che, se non lui, qualcun altro un giorno potesse guarire grazie alla ricerca scientifica.

Ma è qui che entra in gioco una triste realtà: le malattie genetiche rare, proprio perché riguardano pochi pazienti, faticano a ricevere l’attenzione e i fondi necessari da parte delle grandi aziende farmaceutiche. La ricerca, in questi casi, si nutre della generosità di chi crede in un futuro migliore. Ecco perché è fondamentale continuare a finanziare studi e sperimentazioni: ogni donazione, ogni piccolo gesto, può fare la differenza.

Chiudo con un pensiero di speranza: libri come La forza della vita ci ricordano che, anche nelle situazioni più buie, l’umanità riesce a brillare. La forza di Giulia, come quella di Ugo, è un lascito che non possiamo ignorare. Che queste storie ci ispirino non solo ad apprezzare ciò che abbiamo, ma anche a lottare per un mondo in cui ogni vita, anche la più fragile, venga protetta e sostenuta.

Consiglio questo libro a chi cerca una lettura capace di scuotere l’anima e insegnare il valore profondo della vita.

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Lo scrittore artigiano

Personaggi in cerca d’autore

L’autore era seduto alla scrivania, nella sua stanza pensatoio, circondato dai suoi manoscritti, quando un fruscio nell’aria lo fece voltare. Era strano, davvero, perché era solo in casa. O almeno così credeva.

Roman: (entrando con passo sicuro e sguardo vigile) “Ehi, Lorenzo, possiamo parlare? C’è qualcosa che dobbiamo chiarire.”

L’autore: (sorridendo) “Roman! Che sorpresa. Pensavo fossi in missione con Gwenny.”

Gwenny: (entrando subito dopo, con una mano sui fianchi e un’espressione seria) “Sì, siamo in missione, ma anche noi abbiamo i nostri diritti, sai?”

Roman: “Esatto. Vogliamo parlare del fatto che ci fai affrontare un’intelligenza artificiale che controlla il mondo intero e non ci hai dato nemmeno un drone decente. Tutto ‘post-apocalittico’, e poi? Dove sono le nostre armi futuristiche?”

L’autore: (ridendo) “Ragazzi, è una distopia, non un film d’azione.”

Mentre parlava, la porta si spalancò e fece il suo ingresso Marco Claudio Acuto, con il passo elegante di un cittadino romano, che si guardava intorno con sospetto.

Marco Claudio Acuto: (alzando un sopracciglio) “Beh, non mi sorprende. Mi avete tirato via dall’Impero per una cosa del genere? Dove sono finiti i fasti di Roma?”

Roman: (spalancando gli occhi) “Roma? Non ci sono più imperi da molto tempo.”

Marco: (sorridendo con superiorità) “Lo so. Ma il mio problema non è la fine di Roma, è che lui…” (indica L’autore) “mi fa sembrare un eroe stoico quando tutto ciò che volevo era diventare un mercante di vino e vivere una vita tranquilla.”

L’autore: (con un sospiro) “Ah, questa è bella! Marco, te l’ho già detto. Senza la tua indagine, avresti passato il tempo a contare monete e a litigare con i mercanti d’olio. Non suona molto eroico, vero?”

Proprio mentre Marco stava per ribattere, si sentì una risata soffocata in corridoio. Agostino Maria Silvestri entrò con aria sorniona, seguito da Cinò, il suo amico d’infanzia, sempre con la camicia mezza sbottonata e un pacchetto di sigarette in mano.

Agostino: “Ma davvero state discutendo di chi è più figo tra un rivoluzionario post-apocalittico e un romano tutto d’un pezzo? Noi eravamo i veri ribelli prima che voi vi pensaste!” (ride, poi guarda l’amico) “Dico bene, Cinò?”

Cinò: (annuisce e si appoggia al muro) “Noi sì che ci ribellavamo, mica a un’IA, ma alla società intera. E senza armi. Sostenuti solo dai nostri ideali.”

Gwenny: (incuriosita) “Davvero? E come vi è andata?”

Cinò: (alzando le spalle) “Siamo sopravvissuti. Più o meno.”

L’autore: (sorridendo) “A modo vostro, avete vinto.”

Agostino: (ridacchiando) “Beh, tranne che per il fatto che poi ci hai messi davanti alla malattia e ai ricordi dolorosi.”

Proprio in quel momento fece il suo ingresso il commissario Paolo Pasubio, con aria decisamente contrariata, seguito da Martina Zygter, Maria Gennaro, Vivian Pagani e il piantone Esposito.

Pasubio: (sbattendo la porta alle sue spalle) “Scusate, ma devo mettere le cose in chiaro. Sono stato il primo personaggio che hai creato, Lorenzo. Il primo! E ora? Mi sembri più concentrato su questi giovani eroi futuristici, o sbaglio?”

L’autore: (alza le mani, cercando di calmare la situazione) “Paolo, tranquillo. Ogni storia ha il suo momento.”

Pasubio: (geloso) “Sì, sì, bella risposta. Intanto però io sto lì, a risolvere crimini con la mia squadra, mentre loro giocano a fare i ribelli nel futuro. E poi, ti pare che mi dai uno stiletto vecchio di cento anni e mi fai cercare un assassino da tempo immemorabile? Almeno dammi un caso d’attualità!”

Martina Zygter: (sorridendo sarcasticamente) “Sì, commissario, perché chi non vorrebbe una storia in cui si indaga un caso di un secolo fa? Molto meglio che inseguire terroristi.”

Vivian Pagani: (annuisce) “E poi vogliamo parlare di come fai sempre arrabbiare Esposito?”

Esposito: (offeso) “Io? Arrabbiato? Commissario, io sono sempre a disposizione!”

L’autore: (ridendo) “Esposito, lo sai che ti ho creato così apposta, no? Sei il tocco di comicità in mezzo a tutto questo dramma.”

Esposito: “Ah, allora tutto calcolato, eh?”

Gwenny: (guardando il commissario con curiosità) “Quindi tu sei il più vecchio di noi?”

Pasubio: (orgoglioso) “Esattamente. Sono stato il primo!”

Agostino: (ridacchiando) “E ora sei geloso…”

Pasubio: (incrociando le braccia) “Diciamo che mi piace l’idea di essere il preferito. Non mi aspettavo che Lorenzo si mettesse a creare rivoluzionari e filosofi di quartiere.”

L’autore: “Ehi, calmati, commissario. Ogni personaggio è importante, non esistono di serie A e di serie B. Siete tutti parte della mia fantasia.”

Cinò: (fumando) “Quindi, ci stai dicendo che siamo tutti uguali?”

L’autore: “Beh, ognuno ha il proprio ruolo. Certo, a volte un personaggio vive più a lungo nella mente del lettore, ma questo non significa che altri siano meno importanti.”

Marco Claudio Acuto: (con fare solenne) “Ah, dunque siamo come figli, ciascuno con la propria importanza?”

L’autore: (annuendo) “Siete come figli, ognuno con il proprio destino, anche se a volte mi prendete la mano e decidete per conto vostro. Ma io voglio bene a tutti voi, alla stessa maniera.”

Roman: (incrociando le braccia) “Esatto! Ecco, è di questo che volevamo parlare. Non è che ci dai abbastanza libertà, Lorenzo. Siamo sempre costretti nei tuoi progetti.”

L’autore: “Ah, quindi ora vi sentite come i personaggi di Pirandello, in cerca d’autore, eh?”

Agostino: “Siamo vivi nella tua testa, ma abbiamo anche la nostra voce. E ogni tanto vogliamo farci sentire.”

L’autore: (con un sorriso) “Siete voi che mi avete insegnato una cosa importante. Scrivere non significa solo creare storie, ma lasciarvi vivere nella mia fantasia e, a volte, sorprendermi con le vostre scelte.”

Pasubio: (rassegnato ma con un sorriso) “D’accordo, allora. Ma la prossima volta, fammi indagare un caso contemporaneo, va bene?”

L’autore: (sorridendo sotto i baffi che non ha) “Vedremo, commissario. Vedremo.”