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Pier Paolo Pasolini, 50 anni dopo. Il profeta scomodo che ci aveva avvertiti

Pasolini a Roma, anni 60 – ritratto del maestro che anticipava la modernità
Pasolini a Roma, anni 60 – ritratto del maestro che anticipava la modernità

Il 2 novembre 1975, sulla spiaggia dell’Idroscalo di Ostia, moriva brutalmente Pier Paolo Pasolini, uno degli intellettuali più acuti, inquieti e coraggiosi del Novecento italiano. Cinquant’anni dopo, le sue parole bruciano ancora. Anzi, sembrano scritte oggi. E forse è proprio in questo che si manifesta il tratto più impressionante della sua figura: la capacità di vedere prima degli altri, di leggere nelle trasformazioni della società italiana non solo i fatti, ma le conseguenze profonde, culturali e spirituali.

Un maestro senza cattedra

Pasolini non fu mai un intellettuale comodo. Colto, poetico, ma anche tagliente, radicale, scomodo. Criticava la borghesia, ma non si allineava mai del tutto con la sinistra. Denunciava l’ipocrisia del potere, ma senza cadere nel populismo. Era, in un certo senso, un maestro senza cattedra, che cercava di risvegliare le coscienze e che trovava nel popolo – quello autentico, legato alle radici, al sacro, alla terra – un interlocutore smarrito.

Ecco allora la sua profezia più potente: il popolo italiano, scriveva già negli anni ’60, stava perdendo la sua identità, abbandonando la cultura contadina e cattolica, per abbracciare un modello di vita consumista e omologato, imposto dalla televisione, dalla pubblicità, dal nuovo potere economico.

“Il vero fascismo è il consumismo”, scriveva Pasolini.

Dalla grazia al consumo

L’Italia che Pasolini amava era quella della grazia contadina, dei volti scolpiti dal sole, della lingua dialettale che raccontava una storia lunga secoli. Era una società povera, sì, ma ricca di valori, di rapporti umani autentici, di una religiosità popolare che dava senso alla vita quotidiana. Quella società stava scomparendo.

Al suo posto stava nascendo, sotto la spinta del boom economico e dell’invadenza dei media, un nuovo tipo umano: l’italiano medio borghese, desideroso di apparire, consumare, salire nella scala sociale, a qualunque costo. Un’Italia “svuotata” spiritualmente, in cui la fede diventava facciata, e il senso del sacro si dissolveva nella logica del profitto.

Un cattolico eretico?

Il rapporto di Pasolini con il cattolicesimo è complesso, ma mai banale. Non era un credente in senso tradizionale, ma guardava alla figura di Cristo con profondo rispetto, tanto da dedicargli uno dei suoi film più struggenti e rispettosi: Il Vangelo secondo Matteo (1964), girato con attori non professionisti e con un rigore quasi francescano. Quel film è la sua personale dichiarazione d’amore per un messaggio evangelico vissuto fino in fondo, lontano da ogni ipocrisia clericale.

Pasolini non attaccava la Chiesa per spirito anticlericale: piuttosto, le rimproverava di aver smesso di essere guida spirituale e morale per il popolo. Di essersi arresa alla modernità, smettendo di parlare il linguaggio semplice della verità.

Un testamento ancora attuale

Nei suoi ultimi articoli – raccolti nel volume Scritti corsari – Pasolini si scaglia contro la nuova scuola, contro la TV, contro una modernità che toglie ai giovani il pensiero critico. Denuncia la distruzione del paesaggio, la volgarità del dibattito pubblico, l’omologazione culturale che livella tutto, annullando le differenze.

A distanza di 50 anni, è difficile dargli torto. Basta guardarsi intorno per vedere quanto quelle trasformazioni annunciate da Pasolini siano diventate la nostra quotidianità: l’invadenza dei media, ora social media, la crisi dell’identità culturale, la perdita di senso, l’assenza di una voce morale forte.

Il lascito di un visionario

Pier Paolo Pasolini è stato un poeta civile, un visionario, ma anche un uomo fragile, pieno di contraddizioni, che ha pagato a caro prezzo la sua sincerità. Non voleva piacere a tutti. Non cercava consensi. Cercava la verità. E per questo continua a parlare a chi ha il coraggio di ascoltarlo.

A cinquant’anni dalla sua morte, non basta ricordarlo: occorre rileggerlo. Perché se è vero che non ci ha lasciato soluzioni, ci ha consegnato però le domande giuste.

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Jane Austen, la scrittrice che ha dato forza alle parole delle donne

Il 18 luglio 1817 moriva Jane Austen, ma a due secoli di distanza, le sue parole continuano a vivere, fresche, intelligenti e potenti. In un’epoca in cui alle donne era concesso poco, Jane scriveva con una chiarezza e un’ironia che ancora oggi ci sorprendono, affermando la forza delle parole femminili.

Attraverso sguardi capaci di osservare il mondo, Jane Austen raccontava sentimenti, società, convenzioni e ribellioni. Le sue eroine, come Elizabeth Bennet, Anne Elliot o Emma Woodhouse, sono così reali e attuali da non lasciarsi definire dagli altri. Cercano la propria strada, a volte inciampano o sfidano le regole, accompagnate dalla scrittura limpida, ironica e profonda di Austen.

I suoi romanzi sono ben più di semplici storie d’amore. Sono intrisi di critica sociale, intelligenza emotiva e una profonda riflessione sul ruolo delle donne, con una costante attenzione al potere delle parole. Jane Austen scriveva per sé e per chi sapeva leggere tra le righe.

Oggi, rileggere Jane Austen significa ritrovare qualcosa di noi – nei silenzi di Fanny Price, nella lucidità di Elinor Dashwood, nella ribellione silenziosa di Anne – e ascoltare una voce che non ha mai smesso di parlare. Ci ricorda che, anche in un mondo pieno di vincoli, si può scrivere con libertà. Si può essere ironici senza essere superficiali e parlare d’amore trattando temi come la dignità, le scelte e l’indipendenza.

In un mondo in continua evoluzione, Jane Austen rimane un punto fermo. La sua penna ha attraversato il tempo per dirci, con garbo e fermezza, che ogni donna ha diritto alla propria voce, e ogni lettore – uomo o donna – ha il dovere di ascoltarla.

E oggi, come sarebbe Jane Austen? Forse così!

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Eduardo De Filippo: L’Anima di Napoli, la Voce dell’Umanità

La pagina del Corriere della Sera del 10 aprile 1934 con la recensione di “Natale in casa Cupiello”

Il 24 maggio 2025 ricorreranno 125 anni dalla nascita di Eduardo De Filippo, un gigante del teatro italiano, un artista che ha saputo come pochi far vibrare le corde dell’anima umana. La sua eredità, un tesoro di commedie indimenticabili e di una profonda comprensione dell’animo umano, continua a vivere nei cuori di chi lo scopre.   

È stato mio nonno Raffaele a farmi conoscere Eduardo. Ricordo ancora la sua ammirazione per quest’uomo capace di suscitare riso, commozione e riflessione, tutto in un unico istante. Un maestro, un punto di riferimento, un amico sincero attraverso le sue opere.   

Chi era Eduardo?

Nato a Napoli nel 1900, Eduardo De Filippo calcò le scene fin da giovanissimo, respirando l’aria del palcoscenico come fosse la sua stessa essenza. La sua vita fu un atto d’amore verso il teatro: autore prolifico, attore carismatico, regista visionario e fondatore di compagnie. Ma Eduardo era molto più di un semplice uomo di teatro. Era un poeta del quotidiano.   

Le sue opere sono finestre aperte sulla vita vera, quella intessuta di sogni e speranze, ma anche di difficoltà, delusioni e legami familiari. Ha creato commedie che sono ormai leggende, pietre miliari della drammaturgia italiana: Natale in casa CupielloFilumena MarturanoNapoli milionaria! e Questi fantasmi! In questi capolavori, Eduardo mescolava con maestria umorismo e malinconia, dando voce alla gente comune con una verità e un’autenticità che arrivano dritte al cuore.   

Un Uomo che Comprendeva l’Animo Umano

Eduardo non scriveva per mettersi in mostra, per esibire la sua bravura. Il suo teatro nasceva dal desiderio profondo di comunicare, di creare un ponte con il pubblico. Utilizzava il dialetto napoletano, è vero, ma le sue storie superano i confini linguistici e geografici, toccando l’universalità dell’esperienza umana. Amore, povertà, il bisogno di essere ascoltati, la ricerca della felicità: temi eterni che risuonano in ogni cuore, in ogni tempo.   

La sua celebre battuta, “Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male”, è un esempio perfetto della sua capacità di unire il riso alla riflessione. Eduardo sapeva scovare la poesia nelle piccole cose, la verità nei silenzi, l’umanità nelle fragilità.   

Un Riconoscimento Mancato, Un’Eredità Immortale

Nel 1981, fu nominato senatore a vita, un riconoscimento prestigioso per il suo contributo alla cultura italiana. Tuttavia, per molti, e mi unisco a questo coro, avrebbe meritato il Premio Nobel per la Letteratura, il sigillo di un genio. Le sue opere hanno varcato i confini nazionali, tradotte, amate e rappresentate in tutto il mondo.   

Ma forse, la sua grandezza più autentica risiede nella sua capacità di essere sempre attuale, di parlare al presente anche senza l’investitura di un premio. La sua eredità è viva, pulsante, custodita nel cuore di chi lo legge, lo ascolta e lo vede in scena ancora oggi.   

Perché Eduardo è Importante per le Nuove Generazioni

Eduardo De Filippo è un maestro che ci aiuta a comprendere più profondamente chi siamo. I suoi personaggi non sono eroi senza macchia, ma esseri umani con le loro fragilità, le loro contraddizioni, le loro debolezze. Sono comici e tragici allo stesso tempo, ma soprattutto veri.   

In un’epoca dominata dalla velocità e dall’apparenza, Eduardo ci invita a rallentare, a guardare dentro noi stessi, ad ascoltare gli altri, a coltivare la profondità dell’animo. Avvicinarsi al suo teatro può sembrare strano all’inizio, un tuffo in un mondo lontano. Ma ben presto, nasce un’affezione sincera, un legame indissolubile. Perché si comprende che, al di là del tempo trascorso, quelle storie parlano anche di noi, delle nostre vite, delle nostre emozioni.   

Eduardo De Filippo non è semplicemente un capitolo della storia del teatro. È uno specchio nel quale possiamo ancora oggi rifletterci, per comprendere un po’ meglio la complessità e la bellezza dell’esistenza.   

Buon compleanno, Maestro. La tua voce continua a risuonare nei nostri cuori.

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In ricordo di Giorgio Bassani: la memoria come resistenza silenziosa

Corriere della Sera

Il 13 aprile del 2000 ci lasciava Giorgio Bassani, uno dei più intensi e raffinati narratori del Novecento italiano. A venticinque anni dalla sua scomparsa, il suo sguardo delicato ma implacabile sulla Storia continua a parlarci, a insegnarci, a farci riflettere.

Bassani è l’autore de Il giardino dei Finzi-Contini, romanzo simbolo della memoria, della perdita e della distanza tra ciò che siamo e ciò che avremmo potuto essere. Ambientato nella Ferrara della sua giovinezza, attraversata dalle leggi razziali e dalle ombre del fascismo, questo libro ci racconta non solo la tragedia della persecuzione ebraica, ma anche il dramma universale dell’esclusione, dell’illusione e della fragilità delle relazioni umane.

Ma Bassani è molto più di un solo romanzo. Con il ciclo narrativo Il romanzo di Ferrara ha costruito un affresco vivido e doloroso dell’Italia tra gli anni ’30 e il dopoguerra, scavando con una lingua limpida e asciutta nella coscienza individuale e collettiva. Le sue storie parlano di emarginazione, silenzi, vigliaccherie quotidiane, ma anche di dignità, resistenza interiore e bellezza nascosta.

Perché leggerlo ancora oggi?
Perché nei suoi libri troviamo il coraggio della memoria. In un tempo in cui la velocità rischia di farci dimenticare le lezioni del passato, Bassani ci invita a fermarci, ad ascoltare i sussurri delle vite dimenticate, a chiederci chi siamo davvero quando il mondo ci chiama a scegliere da che parte stare.

I suoi personaggi non sono eroi, ma esseri umani pieni di contraddizioni, che spesso scelgono il silenzio, l’attesa, la malinconia. Eppure proprio in quella discrezione, in quell’umanità ferita, c’è la forza del suo messaggio: ricordare è un atto rivoluzionario, un modo per non cedere all’indifferenza.

Bassani era anche un editor coraggioso (fu lui a sostenere Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa), un intellettuale impegnato nella difesa del patrimonio culturale italiano, e un poeta dalla voce sommessa ma profondissima.

Oggi, nel ricordarlo, possiamo fare qualcosa di semplice ma importante: aprire uno dei suoi libri, magari proprio Gli occhiali d’oro o Dietro la porta, e lasciarci guidare da quella sua prosa limpida, che non ha mai cercato effetti speciali, ma solo verità.

Giorgio Bassani ci ha insegnato che ogni vita, anche la più nascosta, merita di essere raccontata. E che la letteratura, come un giardino segreto, può conservare per sempre la bellezza fragile delle cose perdute.

Come raccontava un articolo apparso sul Corriere della Sera il giorno successivo al suo funerale, a Ferrara si radunò una piccola folla, come nei suoi romanzi, attorno alla bara di un uomo che aveva dato voce ai silenzi della sua città.

Due donne — la moglie Valeria e la compagna Portia — sedevano l’una accanto all’altra, simbolo di una vita complessa, eppure coerente nel suo amore per la verità.

Lì, tra i cipressi del cimitero ebraico, Bassani tornava alla sua Ferrara in una scena che sembrava uscita da una delle sue pagine più belle. E come scrisse una volta immaginando la sua stessa morte, fu trasportato “in una grossa berlina metallizzata” a chiudere il cerchio di una storia che non smette di parlarci.

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Flannery O’Connor: Cento Anni di Grazia e Grottesco

Il 25 marzo 1925 nasceva a Savannah, in Georgia, Mary Flannery O’Connor, una delle voci più straordinarie della letteratura americana del Novecento. A cento anni dalla sua nascita, il suo lascito letterario continua ad esercitare un’influenza profonda su scrittori e lettori di tutto il mondo. Con il suo stile inconfondibile, caratterizzato da un realismo grottesco, una profondità spirituale e una sottile ironia, O’Connor ha saputo esplorare le contraddizioni dell’animo umano attraverso racconti e romanzi che ancora oggi lasciano il segno.

Un Destino Segnato dalla Malattia, ma Non dalla Rassegnazione

La vita di Flannery O’Connor è stata breve ma intensa. Segnata dalla precoce perdita del padre a causa del lupus, la stessa malattia che poi l’avrebbe colpita, O’Connor non si lasciò mai sopraffare dalle difficoltà. Dopo aver studiato alla Georgia State College for Women e successivamente all’Iowa Writers’ Workshop, si impose presto come una delle voci più originali della narrativa americana.

Nel 1952, all’età di soli 27 anni, le venne diagnosticato il lupus, una malattia che la costrinse a ritirarsi nella fattoria di famiglia, “Andalusia”, a Milledgeville, in Georgia. Qui, pur tra le limitazioni imposte dalla malattia, continuò a scrivere con una determinazione straordinaria, regalando alla letteratura alcune delle opere più potenti e incisive del secolo scorso​.

Lo Sguardo Inesorabile sul Sud e sulla Grazia Divina

Ambientate nel profondo Sud degli Stati Uniti, le storie di O’Connor raccontano un’America rurale e chiusa, attraversata da tensioni religiose, sociali e razziali. La sua fede cattolica, vissuta in un contesto prevalentemente protestante, fu un elemento centrale della sua scrittura. Nei suoi racconti, spesso dominati da eventi imprevisti e da epifanie violente, il concetto di grazia divina assume una forma concreta e drammatica. I suoi personaggi, spesso bigotti, fanatici o ingenui, si trovano faccia a faccia con verità sconvolgenti che li trasformano irreversibilmente​.

O’Connor era convinta che Dio si manifestasse soprattutto agli ultimi: ai ragazzini storpi, preda del demonio, e a quelli prigionieri del proprio egoismo; ai delinquenti pronti a estrarre la pistola; ai vecchi inurbati dalla campagna, desolati dinanzi alla finestra di fronte; ai rifiutati dal mondo. Il male, la sofferenza e la redenzione sono elementi centrali del suo universo narrativo, costruito con una straordinaria perizia stilistica e un’attenzione meticolosa all’effetto del colpo di scena, spesso decisivo nei suoi racconti.

Il suo stile è caratterizzato da una scrittura essenziale e da una visione cruda della realtà, spesso espressa attraverso figure grottesche e situazioni estreme. Questo approccio le ha permesso di sondare le profondità della condizione umana, mettendo in luce la fragilità, l’ipocrisia e il bisogno di redenzione che contraddistinguono molti dei suoi personaggi​.

Opere Indimenticabili e una Voce Unica

Tra le sue opere più celebri figurano i romanzi La saggezza nel sangue (Wise Blood, 1952) e Il cielo è dei violenti (The Violent Bear It Away, 1960), ma è nelle raccolte di racconti che la sua arte raggiunge il culmine. Un brav’uomo è difficile da trovare (A Good Man is Hard to Find, 1955) e Tutto ciò che sale deve convergere (Everything That Rises Must Converge, 1965) contengono alcune delle storie più incisive della letteratura americana, capaci di turbare e affascinare il lettore con il loro equilibrio tra realismo e trascendenza​.

O’Connor è stata anche un’acuta osservatrice e saggista. Il suo Diario di preghiera (A Prayer Journal, 2013, pubblicato postumo) offre una visione intima della sua spiritualità e del suo tormentato percorso di fede, mentre la sua corrispondenza, raccolta in The Habit of Being, rivela il suo spirito arguto e la sua profonda intelligenza​.

Un’eredità Letteraria senza Tempo

Flannery O’Connor morì il 3 agosto 1964, a soli 39 anni, lasciando un’impronta indelebile nella letteratura mondiale. La sua capacità di intrecciare il tragico e il comico, il divino e il quotidiano, il sacro e il perverso, continua a ispirare nuove generazioni di scrittori e lettori.

Per O’Connor, la scrittura era un dono, ma un dono che comportava una responsabilità enorme: ha infatti qualcosa in sé di gratuito, di immeritato (come la grazia) e deve far pensare al mistero. Il compito dello scrittore è soltanto quello: indagare nel proprio mistero. Lo scrittore non deve sapere cosa troverà in quel mistero. È finito, altrimenti.

A distanza di un secolo dalla sua nascita, la sua opera rimane un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia esplorare le complessità dell’animo umano attraverso la letteratura. In un’epoca in cui il confine tra bene e male si fa sempre più sfumato, la voce di Flannery O’Connor risuona più attuale che mai, ricordandoci che la grazia può manifestarsi nei modi più inaspettati, anche attraverso le crepe dell’imperfezione umana​.

Per celebrarne il centenario, non c’è modo migliore che rileggere La saggezza nel sangue (Wise Blood), il suo romanzo più iconico. Qui, il protagonista Hazel Motes incarna le contraddizioni tipiche dei personaggi di O’Connor: un uomo che tenta di sfuggire alla religione, solo per trovarsi inesorabilmente intrappolato nella sua orbita. Un viaggio nel grottesco e nel tragico, un racconto di fede e disperazione che continua a interrogare i lettori di ogni epoca.

Se non avete mai letto O’Connor, questo è il momento perfetto per farlo. Se già la conoscete, tornate alle sue pagine: vi parleranno ancora, forse in modo nuovo.