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Cose belle che accadono solo al Meeting

Ogni anno, al Meeting, mi accorgo che accadono cose che altrove sembrano impossibili.
Non parlo solo dei convegni o delle mostre, ma di quella atmosfera inconfondibile in cui ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo sembra portare dentro qualcosa di più grande.

È un luogo dove, per qualche giorno, si può vivere con uno sguardo diverso.
Dove le differenze non dividono, ma incuriosiscono. Dove si può discutere con rispetto, ascoltare con attenzione, incontrare davvero l’altro — anche se la pensa diversamente.

Come quella volta, nel 2018, con Veronica Cantero Burroni.
Aveva solo sedici anni. Arrivava dall’Argentina, con una sedia a rotelle, cinque romanzi pubblicati e una forza d’animo fuori dal comune.
Parlava del suo libro, Il ladro di ombre, ma in realtà raccontava molto di più: la sua vita, la sua fede, il suo modo di affrontare la disabilità come un dono — non una croce, ma una condizione che le permette di guardare il mondo con più profondità.

Diceva: «Essere felice non è avere un cielo senza tempesta, ma trovare speranza e forza nelle battaglie».
Parlava con semplicità e libertà. Ma in quel pomeriggio, tra ragazzi e adulti, è successo qualcosa. Un silenzio pieno, una commozione vera. Era come se, attraverso la sua voce, tutti potessimo intuire che la felicità non è assenza di dolore, ma presenza di senso.

Anche questo è il Meeting.

Oppure ricordo Italia Giacca, incontrata al Meeting nel 2015 in occasione della mostra sull’esodo dei Giuliano-Dalmati.
Una donna forte, dallo sguardo fermo e pieno di luce. Parlava con sobrietà, ma ogni parola era intrisa di verità vissuta.
Non portava rancore, ma memoria. Non cercava compassione, ma comprensione.

Raccontava l’esilio vissuto da bambina, il dolore di chi ha dovuto lasciare la propria terra per rimanere fedele alla propria identità.
Non c’era vittimismo, né enfasi. Solo il peso dignitoso di una storia che non si può dimenticare, e che continua a interpellare anche oggi.

Diceva: “Abbiamo lasciato tutto, ma non ci siamo mai lasciati andare.”
In lei c’era la forza silenziosa di chi ha conosciuto il distacco, ma ha saputo trasformarlo in apertura.
Non ho mai dimenticato quella testimonianza.
Era come una radice che affonda nella terra perduta e, allo stesso tempo, un ramo che si protende verso chiunque voglia ascoltare.

Anche questo è il Meeting: un luogo dove la storia si fa carne, volto, racconto.
E dove incontri persone come Italia, che con la sola presenza ti insegnano cosa significa restare umani, anche nel dolore.

Uno degli incontri che non dimenticherò mai è stato quello con Fabrice Hadjadj al Meeting del 2011, in un’aula gremita di curiosi. Fin dal primo istante colpiva per il suo modo di parlare: serio ma mai pesante, ironico ma profondamente rigoroso. Era evidente che dietro ogni battuta c’era una ricerca autentica della verità.

Al Meeting, si è fatto ascoltare con un approccio sorprendente: raccontava la bellezza della tradizione cristiana, la profondità del desiderio umano, il limite del corpo e la fragilità della nostra esistenza… ma con leggerezza e libertà. Non un discorso astratto, ma uno che ti sfiora: “Il desiderio… la carne… il limite” non erano temi lontani, ma parole che ti restavano dentro, perché dicevano qualcosa di te .

Fabrice Hadjadj è per me la testimonianza vivente di un pensiero appassionato e non conformista, capace di combinare profondità teologica, bellezza filosofica e ironia esistenziale. È uno di quei “mattoni nuovi” che ti restano dentro per costruire in un modo diverso, più vero.

E tutto questo — incontri, spettacoli, testimonianze — avviene in mezzo a volontari sorridenti, famiglie con bambini, giovani in cerca, anziani attenti.
Un popolo in cammino. Un’umanità diversa, possibile.

Sono cose che accadono solo lì.
E ogni volta che torno a casa dal Meeting, mi porto via qualcosa che non so sempre spiegare, ma che sento vero: uno sguardo più aperto, un cuore più vivo, un desiderio rinnovato.

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Costruire nel deserto: il titolo del Meeting 2025

“Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi.”
È il titolo dell’edizione 2025 del Meeting di Rimini. Un verso tratto dai Cori da “La Rocca” di T.S. Eliot. E, come spesso accade con i titoli del Meeting, non è uno slogan: è una sfida.

Viviamo tempi in cui molti “luoghi deserti” ci circondano. Non si tratta solo di paesaggi fisici, ma soprattutto di spazi interiori e sociali: la solitudine, il disincanto, il senso di smarrimento che spesso accompagna il nostro vivere quotidiano; le relazioni che si fanno fragili, il lavoro che perde senso, la realtà che appare arida e opaca.
Sono deserti silenziosi, ma profondi. Eppure, proprio lì può nascere qualcosa di nuovo.

Il titolo di quest’anno ci ricorda che il deserto non è la fine, ma un inizio possibile.
È lì che siamo chiamati a costruire — con mattoni nuovi. Non con vecchie soluzioni, non con strategie di potere o tecnocrazie senz’anima, ma con gratitudine, libertà e desiderio di bene.

Questo spirito si ritrova con forza anche nelle mostre del Meeting 2025, che toccano temi attualissimi:
– la testimonianza coraggiosa di uomini come Vasilij Grossman,
– la freschezza della fede di Carlo Acutis,
– la fedeltà silenziosa dei martiri di Tibhirine,
– figure come San Francesco o il banchiere visionario Amadeo Giannini,
– la sfida dell’innovazione e del lavoro in contesti di crisi,
– la riscoperta della bellezza nell’arte romanica, nella fotografia contemporanea e persino nei materiali scientifici del futuro.

Tra questi percorsi, mi hanno colpito in particolare due figure, lontane tra loro per tempo e contesto, ma vicine per profondità e testimonianza.

Vasilij Grossman, scrittore e giornalista sovietico, ha vissuto in prima linea i grandi drammi del Novecento: la Seconda guerra mondiale, la Shoah, il totalitarismo.
Ha raccontato tutto questo con uno sguardo umano, libero, spesso scomodo per il regime. Il suo romanzo Vita e destino fu sequestrato dal KGB, ma oggi è considerato un capolavoro.
Grossman ha attraversato l’orrore senza cedere al cinismo, cercando in ogni frammento di storia una scintilla di verità, di bene, di giustizia.
È uno che ha costruito — con parole, con memoria, con coscienza — in mezzo al deserto del terrore e della censura.

Carlo Acutis, invece, è un ragazzo del nostro tempo.
Classe 1991, vissuto solo 15 anni, è stato capace di vivere la fede con semplicità e passione in piena era digitale.
Amava la tecnologia, i videogiochi, internet. Ma più di tutto amava l’Eucaristia, che chiamava “la mia autostrada per il cielo”.
Ha creato un sito per far conoscere i miracoli eucaristici nel mondo, perché nessuno dimenticasse che Gesù è presente.
Un ragazzo come tanti, ma con una luce dentro. Un mattone nuovo, fragile e potente, nella costruzione di un mondo più vero.

E poi ci sono le esperienze che commuovono: la disabilità vissuta in famiglia con dignità e amore, la memoria del dramma ucraino, la forza della riconciliazione in tempi di guerra.

Tutte queste mostre raccontano storie vere, che mostrano come si possa davvero ricostruire anche dove tutto sembra perduto. Mattoni nuovi, appunto: relazioni autentiche, progetti generosi, uno sguardo pieno di speranza.

Il Meeting 2025 non sarà solo un insieme di incontri. Sarà un cammino tra testimoni, un laboratorio di fiducia nel futuro, dove chiunque può riscoprire la propria vocazione a costruire, a prendersi cura, a non cedere al deserto.

Io ci sarò. E tu?

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Perché ogni anno torno al Meeting di Rimini

La prima volta che ho messo piede al Meeting di Rimini dev’essere stato nel 1985 o 1986. Avevo circa vent’anni, ed ero in cerca. In cerca di qualcosa che ancora non sapevo definire, ma che sentivo mancarmi: uno sguardo più ampio sul mondo, una compagnia sincera nel vivere le domande di sempre, un luogo dove la realtà non fosse un peso ma una promessa.

Ricordo l’atmosfera fin da subito: intensa, piena, diversa. Le giornate scorrevano tra incontri inaspettati, parole che ti rimanevano dentro, mostre che sembravano parlare direttamente alla tua vita. E soprattutto persone. Persone di ogni età, provenienza, lingua, cultura. Era come trovarsi, all’improvviso, nel cuore pulsante dell’umanità. Come se per qualche giorno, in quel pezzo di Fiera, il mondo intero si fosse dato appuntamento per cercare insieme ciò che conta davvero.

Da allora, ho sempre portato il Meeting dentro di me, anche nei periodi in cui non riuscivo ad andarci. Quando sono nati i miei figli, io e mia moglie Paola abbiamo fatto una pausa di dieci anni. Non ce la sentivamo di affrontare una settimana così “intensa” con bambini così piccoli. Ma la nostalgia era forte. Ogni estate, quando arrivavano le giornate di agosto, sentivo che mi mancava qualcosa.

Poi, appena possibile, ci siamo tornati. Tutti insieme. Ed è stato ancora più bello. Perché con la mia famiglia accanto, quelle giornate sono diventate occasione di crescita condivisa, di sguardi che si incrociano davanti a una mostra, di domande che si riaccendono ascoltando una testimonianza. E da allora, non ho più smesso.

Ogni anno, quando organizzo le ferie, c’è una settimana che non si tocca: quella del Meeting. Lo considero un appuntamento con la mia umanità. Un tempo privilegiato in cui rimettere a fuoco le cose essenziali, lasciarmi provocare, respirare un’aria diversa. Non importa quanto sia stanco, confuso o distratto: torno sempre da lì con il cuore più leggero e il passo più deciso.

Ogni volta che varco l’ingresso della Fiera, provo lo stesso stupore di quella prima volta. E ogni volta torno a casa con qualcosa di nuovo. Un volto, un’idea, un dolore condiviso, una speranza rilanciata. È come se ogni anno il Meeting mi aiutasse a cominciare di nuovo, a vivere con più consapevolezza i dodici mesi successivi.

Per questo comincio oggi una piccola serie di post. Non per spiegare cos’è “il Meeting” in generale, ma per raccontare cosa significa per me.

Il titolo del Meeting 2025 è:
“Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi”

Un verso di T.S. Eliot che ci invita a non arrenderci di fronte al vuoto e alla fatica del presente. È un invito a scoprire che proprio nei momenti più aridi della storia può nascere qualcosa di nuovo: relazioni vere, cura del bene comune, lavoro creativo, iniziative che danno speranza.

Costruire non con illusioni di potere o strategie fredde, ma con gratitudine e libertà, valorizzando tutto ciò che abbiamo ricevuto. È così che si colmano i deserti: non da soli, ma insieme, riscoprendo il desiderio di condividere il cammino verso ciò che è vero, buono e giusto.

Il Meeting offre ogni anno questa possibilità. Ed io non riesco a farne a meno.